Cultura

Siamo in 500, abbiamo messo il mondo nel mirino

Antonio Amendola - Shoot 4 Change

di Antonio Sgobba

Shoot local, change global. Fotografie locali per cambiare il mondo. È il motto di Shoot 4 Change, il network non profit di fotografi nato e cresciuto intorno a un’idea visionaria e coraggiosa di Antonio Amendola. «C’è chi lo chiama gruppo, associazione, collettivo», dice Amendola, «ma in realtà si stratta di qualcosa di diverso: a noi piace pensarci come un network internazionale, una vera e propria rete di fotografi, sia amatori sia professionisti, che ha come finalità quella di portare all’attenzione dell’opinione pubblica storie dai contenuti sociali che normalmente vengono sottovalutate, dimenticate, ignorate», precisa il fondatore. Antonio ha 40 anni ed è fotografo “per caso”: «Sono un giurista, per lavoro mi occupo si comunicazione e tecnologia». I servizi realizzati dai fotografi che aderiscono a Shoot 4 Change trovano una vetrina sul sito (www.shoot 4change.net), e vengono messi a disposizione di piccole organizzazioni non profit, ong e strumenti di comunicazioni che promuovono buone cause ma magari – come spesso accade – non possono permettersi di coprire i costi o di acquistare un grande reportage. «Ma sia ben chiara una cosa», premette Amendola, «noi non regaliamo il nostro lavoro: semplicemente, aiutiamo come possiamo chi non si può permettere servizi come il nostro».
Quali sono storie raccontate?
Quelle che non vengono considerate remunerative dal mainstream. L’informazione tradizionale non comprerebbe mai un certo tipo di immagine o di notizia: per esempio, un nostro fotografo ha realizzato una serie di ritratti di donne calve. Ha provato a venderli a dei settimanali femminili, nessuno ha accettato. C’era chi diceva: «sono troppo scioccanti», chi «belle, ma sai com’è, tra gli sponsor abbiamo dei produttori di shampoo…». Noi gliele abbiamo pubblicate subito.
Il grosso dei vostri reportage però riguarda situazioni difficili, spesso vengono da zone di guerra…
Certo, la nostra rete si estende in Malesia, Afghanistan, Guatemala, Bolivia, negli Stati Uniti. Di recente abbiamo raccontato di un piccolo ospedale che cura i lebbrosi in Turchia, per parlare delle malattie dimenticate ma che uccidono ancora. In Pakistan abbiamo realizzato una serie di ritratti dei Pashtun, in Bangladesh rifugiati scappati dal Myanmar… Persone che cercano rifugio in un Paese che è ancora più povero di quello da cui provengono e sono bloccati da anni ai confini tra i due Stati senza nessun riconoscimento. Quello che probabilmente ci differenzia dagli altri network di fotografi è che noi non puntiamo a una spettacolarizzazione delle situazioni di disagio sociale o delle tragedie. Noi raccontiamo le storie di chi porta un sollievo in quelle situazioni: i volontari, le ong, le associazioni che intervengono per portare aiuti.
In quanti siete?
Circa 500 fotografi e fotogiornalisti hanno aderito alla nostra filosofia. La maggior parte sono in Italia, ma siamo sparsi in tutto il mondo: gli ultimi gruppi hanno aderito da Libano e Turchia. Ma la cosa bella è che sono nate amicizie straordinarie tra i membri dei vari Paesi. Spesso si lavora insieme, c’è una condivisione di idee e progetti diversa dal classico “forum di operatori del settore”. Di solito i fotografi sono visti come narcisi autoreferenziali: stiamo pian piano superando questi luoghi comuni.
Com’è iniziato questo meccanismo?
È iniziato che, due anni fa, sono partito da solo: c’era solo il mio blog, in cui parlavo di fotografia prendendo spunto dalle mie esperienze di viaggio. Per me è sempre stata una passione e non una professione. Col passare dei post ho verificato che c’era un interesse crescente da parte della gente per un approccio non banale al racconto per immagini. Poi, in concomitanza con la grande Marcia mondiale della pace del 2009, sono stato contattato per seguire l’evento a Roma e a Milano. Ho sparso la voce tra qualche amico e ho incominciato ad aggregare interesse. Quando la marcia è passata dall’Italia, io non potevo seguirla, allora ho fatto una sorta di chiamata alle armi fotografica: chi si metteva a disposizione per immortalare l’evento? In pochissimo tempo la mia casella di posta è stata intasata da mail di persone che si mettevano a disposizione, in Italia ma anche a New York, San Francisco e in Argentina. In quel momento ho capito che stava accadendo qualcosa: la gente aveva voglia di scendere in strada e di mettersi a disposizione per raccontare quelle storie.
E ora, come funziona la vostra organizzazione?
Tutti i fotografi sono volontari, ma noi offriamo il nostro lavoro solo a chi non se lo può permettere, diamo voce a chi non ha i mezzi. Ad esempio, piccoli gruppi che si prendono cura degli homeless o di rifugiati, associazioni che lavorano su piccoli – ma fondamentali – progetti locali… Per tutti gli altri, no: se si tratta di grandi ong internazionali o grandi testate chiediamo un rimborso spese. Tutti i ricavi che facciamo dalla vendita di foto sono utilizzati per finanziare altri progetti di tipo sociale.
Che atteggiamento hanno gli altri fotografi nei vostri confronti?
Alcuni ci hanno catalogato come un’agenzia che lavora gratis, e ovviamente hanno protestato: rovinavamo il mercato. Poi quasi tutti hanno capito quello che facciamo davvero: siamo una sorta di collettivo, un blog dei blog, come l’Huffington Post. Diamo spazio per raccontare. Il mercato in cui ci muoviamo è difficile, cambia di giorno in giorno, da un lato ci sono sempre meno risorse per i prodotti di qualità, dall’altro c’è una bulimia di offerta che passa anche da Flickr e dai social network. Non è facile farsi conoscere…
Raccontate anche storie italiane…
Sì, la nostra è un’idea di fotografia sociale a chilometro zero, fotografia di prossimità. A Lampedusa, a vedere gli sbarchi con Laura Boldrini dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Nei primi giorni la notizia data era l’emergenza sociale, ma in realtà non c’era notizia: la popolazione stava accettando benissimo i profughi, chi era arrivato era assolutamente pacifico e non stava creando nessun disagio. Sui giornali si parlava di “emergenza”, perché si crede che la notizia sia tale solo se è negativa. Quello che diciamo ai nostri membri è: non è necessario essere il grande nome del National Geographic che va in Cambogia per cambiare il mondo. Basta andare sottocasa e raccontare una delle miriadi di storie a noi vicine. Come uno dei nostri ultimi lavori, per la Casa di Cartone a Roma: gruppi di volontari che ospitano in case private dei senza dimora per offrire una serata di socializzazione diversa dal solito.
Qual è il vostro rapporto con i media tradizionali?
Purtroppo la tendenza prevalente del mainstream è andata per anni in direzione di un’estetica della tragedia. Un bambino che muore di fame o un uomo cui viene sparato per strada attrae più del gruppo di volontari che aiuta quel bambino o che soccorre quell’uomo. Però stanno arrivando segnali positivi: anche i media tradizionali cominciano a essere attenti a questi temi. Forse i tempi cominciano a essere maturi per un nuovo tipo di informazione che abbandona il sensazionalismo fine a se stesso e si rivolge un po’ di più all’approfondimento. Se fosse così, noi avremmo raggiunto l’obiettivo.
Progetti per il futuro?
Stiamo per partire con una serie di corsi per bambini nelle scuole. Dovremmo incominciare in via sperimentale a Roma, ma vorremmo portarle poi in Asia e in Africa. Per poi mettere in rete queste classi che raccontano la loro quotidianità attraverso reportage fotografici. L’immagine è il primo modo per veicolare un messaggio, per far entrare qualcuno in una storia e conquistare la sua attenzione.

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