Non profit

Siamo assistenti, non guardie

Scrive una delle due volontarie del C.i.a.o per esprimere la propria amarezza di fronte a coloro che le hanno accusate di aver lasciato fuggire Sergio Cosimini

di Cristina Giudici

Mi chiamo Valentina Bernardi e sono una delle due volontarie del Centro informazione, ascolto e orientamento (C.i.a.o.) per detenuti o ed ex detenuti ?alla cui vigilanza – come ha detto la stampa – è sfuggito Sergio Cosimini?, il malato ricoverato all?ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino.
Scrivo per esprimere tutta la mia amarezza contro coloro che, senza interessarsi veramente ai problemi e alle reali condizioni dei malati rinchiusi negli ospedali psichiatrici, si lanciano in giudizi grossolani e approssimativi su chi ha scelto di impegnarsi per cercare di offrire ai malati una dignità e una vita migliore.
Collaboro con l?opg di Montelupo Fiorentino da 5 anni e voglio raccontare in cosa consiste la nostra attività e con quale impegno e soddisfazione persone come me, accusate di leggerezza e incompetenza, lavorano.
Animati dall?idea che i malati traggano beneficio dall?incontro con persone sane e con cui non ci sono rapporti istituzionali (come medici, infermieri o agenti di custodia), gestiamo un centro di ascolto all?interno dell?ospedale oppure accompagniamo fuori dall?istituto coloro che sono autorizzati a farlo solo se assistiti. Sergio Cosmini è uno di questi.
È sempre il malato a prendere l?iniziativa e, che si tratti di fare due chiacchiere sullo sport al centro di ascolto o di andare in piscina, noi siamo lì per assisterlo e non per controllarlo come guardie carcerarie; se così fosse non sarebbe più un rapporto paritario e la comunicazione tra due persone si trasformerebbe in quella tra prigioniero e guardia. Chiaramente si corrono dei rischi e la responsabilità è grande, ma la soddisfazione pure.
Si parla tanto di restituire ai malati una progettualità di vita ma, per il momento, tranne qualche istituzione come case di accoglienza o cooperative, l?alternativa alla reclusione negli ospedali è rappresentata da qualche passeggiata o contatto sporadico con le famiglie, non abbastanza per delle persone umane che a volte non vengono neppure riconosciute come tali.
Non voglio sminuire quanto è accaduto con Sergio ma vorrei invitare chi si è tanto facilmente scandalizzato e ha dipinto la sua fuga con toni che avrebbero davvero potuto trasformare una tragedia personale in qualcosa di peggio, a riflettere sulle cause che l?hanno generata. Ma lo sapete che neanche un giornalista ci ha interpellato?
A interrogarsi su quali possano essere le alternative agli ospedali psichiatrici, su come si possa fare in modo che un malato non perda la sua dignità di uomo e di cittadino, su come stimolarlo a guarire e non solo curarlo passivamente, sul suo diritto al lavoro e alla socialità e su come si possa combattere il senso di abbandono e di incertezza nel futuro che spesso lo pervade.

Valentina Bernardi,
Firenze

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