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“Si vis pacem para bellum”: obsolescenza di un paradigma fondato sul pensiero magico. Tracce di critica realista e razionale
1. Tracce di etica e politica
Di fronte al reiterato ribaltamento logico, mai forte come adesso, per cui la pace costruita con mezzi di pace – seppur retoricamente invocata – viene ancora relegata al regno dell’utopia, mentre l’ossimoro della pace attraverso la guerra – nonostante le continue smentite della storia – continua ad essere alimentato e meticolosamente preparato, meglio ricordare che c’è un ampio e importante filone di scienza della politica che fonda invece – direttamente o indirettamente – il realismo della costruzione della “pace con mezzi pacifici” (Johan Galtung) su solide basi etiche e razionali. Scienziati della politica non sempre legati direttamente al pensiero “pacifista”, ma accomunati dall’uso della responsabilità e della razionalità, in particolare nell’approccio ai conflitti. Facciamone qui un rapido – incompleto e limitato – excursus, a partire dal ‘900. Come tracce luminose sul sentiero da percorrere per non perdersi nell’oscurantismo e salvare l’umanità.
Max Weber e Hans Jonas
Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1919, Max Weber tenne una lezione all’università di Monaco in cui, affrontando il rapporto tra etica e politica, pose la fondamentale distinzione nella politica contemporanea, tra «etica dei principî» ed«etica della responsabilità»”. Nell’etica dei principi, o dell’intenzione, ci preoccupiamo di avere la coscienza a posto rispetto all’obiettivo da conseguire, qualunque esso sia, e quindi ogni strumento appare legittimo per raggiungere il fine, senza pre/occuparci delle conseguenze. L’etica della responsabilità, al contrario, si chiede e cerca di prevedere e valutare le conseguenze del proprio agire. Qui entra in gioco il tema decisivo del rapporto tra i mezzi e i fini nell’agire politico, che Weber esplicita così: “Nessuna etica al mondo può mostrare quando e in che misura lo scopo eticamente buono «giustifichi» i mezzi eticamente pericolosi e le sue possibili conseguenze collaterali”.
Di fronte ai progressi “spaventosi” della tecnica ed al loro impatto sull’eco-sistema, e dunque sulla stessa sopravvivenza dell’umanità, nel 1979 sarà Hans Jonas a fondare sul “Principio responsabilità” l’etica del futuro, “un’etica per la civiltà tecnologica”, ancorata ad un nuovo imperativo categorico: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra”.
Mohandas Gandhi e Aldo Capitini
Nello stesso anno della lezione di Weber, Mohandas K. Gandhi, nel pieno della lotta per l’auto-governo dell’India, formulò la regola aurea della nonviolenza sul rapporto mezzi-fini: “i mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il fine e l’albero”. Ovvero i mezzi usati nell’agire politico devono essere coerenti con il fine da raggiungere, tanto come principio etico fondamentale, quanto come efficace pratica rispetto alla realizzazione dello scopo. Tanto più, scriverà, nel 1947 dopo Hiroshima e Nagasaki “la morale che si può trarre dalla spaventosa tragedia provocata dalla bomba atomica è che una bomba non può essere distrutta da un’altra bomba, come la violenza non può essere distrutta dalla violenza”. Anche Aldo Capitini, in Italia – ispirato da Gandhi – ribadirà più volte questo concetto fondamentale: “nella grossa questione del rapporto tra mezzi e fini, la nonviolenza porta il suo contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile se vuoi la pace prepara la guerra, ma attraverso un’altra legge: durante la pace, prepara la pace”
Dwight David Eisenhower
Il 17 gennaio 1961, il 34° presidente USA Eisenhower – che conosceva bene la guerra e il sistema militare in quanto era stato comandante in capo delle Forze alleate nel Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale – nel discorso di addio alla nazione mise in guardia la democrazia statunitense, e di conseguenza tutte le democrazie, con estrema lucidità e chiarezza, dall’enorme potere che stava acquisendo la saldatura dell’industria degli armamenti con gli apparati della difesa: “Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuova nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. […] Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito”.
Hannah Arendt
Qualche anno dopo, nel 1964, Hannah Arendt ne La banalità del male, indicava la resistenza danese all’occupazione nazista come esempio da studiare in tutte le università. La Danimarca è l’unico paese europeo nel quale il governo decise di non contrapporre alla potenza di fuoco della wehrmacht il piccolo esercito ed il popolo organizzò una grande e significativa resistenza civile e non armata. “A quel che si sa” – spiega la Arendt – “fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalità. Non vedevano più lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro durezza si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio. (…). Su questa storia” – che salvò, unico paese in Europa, il 98% degli ebrei danesi (ndr), continua Arendt – “si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”.
Alex Langer
Alex Langer da capogruppo dei Verdi al Parlamento europeo, nel 1995, elaborò il documento “Per la creazione di un corpo civile di pace europeo” che poneva la necessità di non lasciare al solo generoso volontariato l’onere della costruzione delle alternative alla guerra. Nel pieno del conflitto armato fratricida nell’ex Jugoslavia, Langer immaginava una vera e propria forza disarmata, costituita “dall’Unione Europea sotto gli auspici dell’ONU”, inizialmente composta da professionisti e volontari, formati ed equipaggiati per intervenire nei conflitti internazionali prima dell’esplosione della violenza e capaci di rimanervi efficacemente anche durante la fase acuta. Il corpo di pace, scriveva tra l’altro Langer “agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le personalità di spicco. Promuoverà l’educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell’ascolto reciproco…”. Non è difficile, in questo senso, immaginare oggi il ruolo positivo di mediazione e de-escalation tra le parti in conflitto – coerente con il ripudio costituzionale della guerra e di costruzione della pace con mezzi pacifici – che un Corpo civile di pace europeo avrebbe potuto svolgere nelle auto-proclamate repubbliche del Donbass ucraino fin dal 2014 – anche per monitorare il rispetto o meno dei “protocolli di Minsk” – invece dell’arrivo di armi Nato da un lato e russe dall’altro, con i relativi consulenti ed addestratori di guerra che hanno preparato l’escalation in corso.
2 Tracce di scienza e filosofia
In particolare dopo la seconda guerra mondiale, che si concluse con la sperimentazione della violenza delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki – non necessaria a chiudere la Seconda guerra mondiale, ma a definire la supremazia assoluta tra i suoi vincitori – anche gli scienziati propriamente detti, quelli che indagano le leggi della natura, cominciano a segnalare, sempre più spesso, insieme ad alcuni filosofi, l’irrazionalità della guerra e a promuovere la ricerca di soluzioni alternative per affrontare e risolvere i conflitti. Per fare il salto di civiltà necessario alla sopravvivenza dell’umanità. Anche qui un rapido sguardo ad alcune tracce luminose.
Manifesto Einstein-Russell
Il Manifesto Einstein-Russell, reso noto nel luglio 1955, chiedeva ai governi del mondo il disarmo atomico e la ricerca di “mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa”. E’ frutto dell’impegno comune del filosofo inglese Bertrand Russell e del fisico tedesco Albert Einstein e del fitto carteggio preparatorio – nel quale il primo scriveva al secondo «penso che eminenti uomini di scienza dovrebbero fare qualcosa di spettacolare per aprire gli occhi ai governi sui disastri che possono verificarsi» – che diede vita al Manifesto, firmato da eminenti scienziati ed intellettuali del tempo, tra i quali anche i premi Nobel Max Born e Linus Pauling. E’ un manifesto di grande attualità, nel quale Einstein e Russell pongono il tema cruciale per la loro come per la nostra generazione: “Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: Quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?”
Tesi sull’età atomica di Günther Anders
Negli stessi anni ed in quelli successivi ribadiva ad approfondiva lo stesso concetto anche uno dei massimi pensatori dello stato dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’apocalisse nucleare: Günther Anders, autore di opere fondamentali per comprendere il nostro precario stare al mondo di quelli-che-esistono-ancora. Tra i suoi scritti, fondamentali sono Le Tesi sull’età atomica , un testo “improvvisato” di Anders nel 1960 dopo un dibattito sui problemi morali dell’età atomica con gli studenti dell’Università di Berlino, dove sono esposte in maniera limpida ed essenziale le caratteristiche, inedite e inaudite, dell’epoca atomica. Nella quale bisogna trovare “il coraggio di aver paura” perché la paura è segno di consapevolezza ed ha perciò un valore euristico, cioè di strumento di conoscenza della realtà: “La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche armi atomiche, è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di armi atomiche, è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica”. E di questa devono gli attori politici necessariamente tenere conto, razionalmente e responsabilmente.
Bollettino degli scienziati atomici
Le lancette del Doomsday clock, l’Orologio dell’Apocalisse, sono l’indicatore simbolico del pericolo nucleare per l’umanità, messo a punto dal Bollettino degli scienziati atomici fin dal 1947, ideato dai fisici Eugene Rabinowitch e Hyman Goldsmith – che erano fissate a 2 minuti dalla mezzanotte quando Einstein e Russell stesero il loro Manifesto – hanno guadagnato tempo negli anni immediatamente successivi all’abbattimento del Muro di Berlino, e ne hanno perso drammaticamente dei decenni successivi, fino ad arrivare ai 100 secondi dalla mezzanotte nella quale è stato fissato ancora, il 20 gennaio scorso, per il terzo anno consecutivo. “L’Orologio rimane più vicino di quanto sia mai stato all’apocalisse della fine della civiltà, perché il mondo rimane bloccato in un momento estremamente pericoloso”, hanno scritto gli scienziati del Bollettino, rendendo nota l’ultima posizione delle lancette.
Dividendo di pace
In questo scenario, già lo scorso dicembre più di cinquanta tra scienziati premi Nobel internazionali, prevalentemente fisici, chimici, medici, e presidenti di Accademie delle scienze – tra i quali gli italiani Giorgio Parisi, Carlo Rubbia, Carlo Rovelli – hanno firmato un appello inviato al Segretario generale delle Nazioni Unite ed ai presidenti dei cinque governi componenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU (USA, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) nel quale chiedono un taglio comune del 2% delle loro spese militari annuali, proponendo che la cifra così annualmente risparmiata venga dirottata su un fondo globale per la lotta contro la crisi sistemica globale in corso: cambiamento climatico, pandemie, povertà. Nel periodo 2025-2030, il “dividendo di pace” generato da questa proposta – pur modesta nella percentuale richiesta – supererebbe mille miliardi di dollari: un importo paragonabile al totale degli investimenti in energia rinnovabile in tutto il mondo, e sei volte maggiore dei fondi disponibili per la ricerca e il trattamento di cancro, HIV/AIDS, TBC e malaria messi insieme. Una proposta realista e razionale
3. Le ragioni della pace contro l’ideologia della guerra
Nonostante la razionalità politica e scientifica continuino ad indicare la via del disarmo e della costruzione di strumenti umani, alternativi alla guerra, per affrontare, gestire e risolvere i conflitti tra gli Stati, e liberare preziose risorse per far fronte alla crisi sistemica globale, che è contemporaneamente climatica, pandemica, energetica, idrica, alimentare e bellica, i governi – apparentemente alieni alla ragione, in preda ad una sorta di oscurantismo ideologico pre-scientifico – continuano a preparare, organizzare e finanziare, con costi crescenti per tutti, la monocultura della guerra nelle relazioni internazionali. Una vera e propria credenza magica dilagante che si auto-alimenta della sua narrazione ideologica e favolistica… se già il presidente Eisenhower non ne avesse spiegato le “ragioni” profonde. Eccone alcuni dati:
I dati dell’oscurantismo
– dal 2001 al 2020 le spese militari globali sono raddoppiate, grazie ai vent’anni di illegale e fallimentare occupazione militare in Iraq ed Afghanistan, che non hanno risolto nessuno dei problemi per le quali erano state formalmente avviate, ma li hanno aggravati tutti, facendo centinaia di migliaia di vittime civili e alimentando l’instabilità globale e il terrorismo internazionale, (come abbiamo spiegato qui).
– Come certifica il SIPRI, le spese militari sono aumentate ancora nel 2021 in piena pandemia globale, abbattendo il muro dei 2000 miliardi di dollari giungendo all’incredibile cifra di 2.113 miliardi di dollari: ossia 5,8 miliardi al giorno. Che è cifra maggiore del budget di un anno delle Nazioni Unite (3,2 miliardi) e del budget di un anno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (3,5 miliardi).
– Dall’avvio dell’invasione russa dell’Ucraina, approfittando dell’onda emotiva generata, molti Parlamenti europei, compreso quello italiano – su pressante indicazione della NATO – hanno deliberato l’aumento al 2% del PIL delle spese militari strutturali dei bilanci degli stati. In Italia ciò comporterà il passaggio dai circa 26 miliardi di euro a circa 40 miliardi di euro all’anno di risorse pubbliche usate per preparare altre guerre, sottratte agli investimenti civili e sociali.
– Circa 13.000 testate nucleari di nuovissima generazione – la cui minaccia era stata rimossa dalla coscienza dell’umanità dopo l’abbattimento del Muro di Berlino – sono puntate contro le nostre teste, di cui dall’inizio della guerra in Ucraina si minaccia nuovamente e irresponsabilmente l’utilizzo (come abbiamo raccontato qui).
– L’Università di Uppsala monitora l’esistenza di oltre 160 conflitti armati (di bassa, media e alta intensità) in corso nel pianeta, con 100.000 morti all’anno e milioni di profughi. Oltre alla guerra e ai profughi ucraini,
L’obsolescenza paradigmatica del principio “si vis pacem para bellum”
Questi dati dimostrano, nel loro insieme – se ce ne fosse ulteriore bisogno – l’obsolescenza paradigmatica del principio “si vis pacem para bellum”, se vuoi la pace prepara la guerra, che fonda ancora le relazioni internazionali sull’oscurantismo bellico, perché:
a. è palesemente falso: con l’enormità di queste spese militari, mai raggiunte prima d’ora, la guerre dovrebbero essere un ricordo del passato e invece dilagano, perfino nel cuore dell’Europa;
b. è pura credenza magica: quel paradigma ha avuto infinite e clamorose smentite in tutto il corso della storia, ed è rigettato dalla razionalità etica e scientifica;
c. è predatorio di risorse economiche sempre crescenti dai bilanci degli Stati, sottratte agli investimenti di cura dell’ecosistema, dell’umanità e della civiltà;
d. nell’età atomica, è il più irresponsabile dei paradigmi, perché prepara e alimenta incredibilmente uno dei corni del dilemma posto da Einstein e Russell, a discapito dell’altro: “metteremo fine al genere umano oppure l’umanità saprà rinunciare alla guerra?”
Il paradigma nuovo
Dunque, per non perdersi nell’oscurantismo, salvare l’umanità dall’olocausto nucleare e liberare risorse per affrontare la crisi sistemica globale, non c’è che una cosa da fare immediatamente: cambiare il paradigma obsoleto con il paradigma nuovo, passare da “se vuoi la pace prepara la guerra” a se vuoi la pace prepara la pace. E farne discendere politiche attive di pace coerenti, razionali e responsabili per affrontare e risolvere i conflitti: disarmo, riconversione sociale delle spese militari, riconversione civile dell’industria bellica, proibizione delle armi nucleari, approntamento della difesa civile, non armata, nonviolenta e dei corpi civili di pace, educazione preventiva e sistematica alla pace ed alla trasformazione nonviolenta dei conflitti dalla dimensione micro a quella macro. Secondo realismo e razionalità
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