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Si scrive Irap, si legge tassa contro il lavoro.

Ideata per disboscare la giungla tributaria e alleggerire la pressione fiscale, si è rivelata un buon affare per le grandi imprese e micidiale per quelle piccole del Terzo settore.

di Francesco Maggio

Se è vero, come recita il vecchio adagio, che «la strada che porta all?inferno è lastricata di buone intenzioni», allora va subito detto che l?iter percorso dalla ?diabolica? Irap per essere varata lo era davvero di ottime. Infatti l?imposta regionale sulle attività produttive, istituita con il decreto legislativo 446/97 in attuazione della legge 662/96 e in vigore dal primo gennaio ?98 con un?aliquota del 4,25%, fu concepita per conseguire scopi quantomai importanti: disboscare, almeno in piccola parte, la giungla tributaria delle oltre cento tasse che a vario titolo gravano sui contribuenti italiani eliminando, tanto per citarne alcune, l?Iciap, l?imposta comunale sulle imprese, arti e professioni, oppure l?odiosa tassa sulla concessione governativa per l?attribuzione del numero di partita Iva, o ancora l?Ilor, l?imposta locale sui redditi; spingere le imprese a capitalizzarsi e a contenere l?indebitamento dato che l?Irap si applica anche sugli interessi passivi; ridurre, seppur modestamente, l?insostenibile pressione fiscale.
Poi però, per raggiungere simili obiettivi, l?imposta è stata congegnata in maniera tale da incidere prevalentemente sui redditi da lavoro piuttosto che, per esempio, sulle rendite finanziarie; sulle piccole e medie imprese, spina dorsale della nostra economia, invece che sulle grandi; su un fattore strategico per la crescita delle organizzazioni non profit come il lavoro e le collaborazioni piuttosto che su altre fattispecie meno determinanti in proposito. Con il risultato finale che oggi, mentre i grandi gruppi possono ritenersi ampiamente soddisfatti dell?introduzione dell?Irap dato che, solo per fare l?esempio dell?Ilor, hanno visto calare la pressione tributaria dal 16,2% al 4,25%, il Terzo settore risulta ancora una volta fortemente penalizzato da un Fisco che un giorno si e l?altro pure, invece di aumentargli i cavalli nel motore per farlo correre più speditamente, gli sgonfia sistematicamente le ruote.
«Premesso che non ritengo sia dell?Irap il merito di aver eliminato certi tributi perché quelli erano di natura erariale mentre l?Irap è regionale», precisa l?avvocato Salvatore Pettinato, il ?principe? dei tributaristi italiani del non profit, «penso che la cosa più irrazionale dell?imposta in questione stia nel fatto che essa va a gravare su tutti quei rapporti di lavoro cosiddetti atipici molto diffusi nelle organizzazioni non profit. E così, una delle principali peculiarità del non profit, quella di creare lavoro o comunque di avviare ad esso migliaia di giovani, trova nell?Irap un inspiegabile freno. Ancor più ingiustificabile», aggiunge Pettinato, «se si pensa che a guadagnarci dalla sua introduzione sono soprattutto i grandi gruppi. Inoltre essa è stata concepita senza alcun coordinamento e collegamento con la legge sulle Onlus e questo la dice lunga su come il legislatore tributario tenga in considerazione il Terzo settore».
Savino Pezzotta, segretario confederale della Cisl, non condivide invece l?impianto generale della legge e ne auspica una modifica: «L?Irap garantisce allo Stato senza dubbio un buon gettito. E questo è positivo. Ma è il ?come? che non condivido in quanto essa va a tassare soprattutto il lavoro. Così si finisce col mettere sullo stesso piano, a parità di profitti, per esempio l?impresa manifatturiera che produce avvalendosi di centinaia di lavoratori e quella hi-tech che, al contrario, ha bisogno solo di qualche super esperto di settore. C?è qualcosa che davvero non va», rincara la dose Pezzotta, «in questo modo di tassare. Si guarda sempre e solo indistintamente ai valori finali e non invece a come quei valori vengono prodotti. Per questo sarebbe auspicabile avere un?imposizione fiscale ad hoc che premi le aziende, come quelle senza scopo di lucro, che creano lavoro e assumono».
Per Ivano Barberini, presidente di di Legacoop, la questione Irap va affrontata facendo alcuni doverosi distinguo: «Ci troviamo di fronte ad una imposta che ha alcuni indubbi meriti come quello di aver nel complesso ridotto la pressione fiscale di 9000 miliardi e di spingere le imprese a capitalizzarsi e a ridurre l?indebitamento». Anche se non bisogna dimenticare che spesso esso è indice della volontà delle imprese di investire e innovare. «Però», aggiunge Barberini, «essa ha finito con il beneficiare principalmente i grandi gruppi e penalizzare il lavoro svolto all?interno delle organizzazioni non profit. Credo perciò che all?Irap andrebbero perlomeno posti dei contrappesi, dei correttivi che in altro modo valorizzino il lavoro svolto nelle organizzazioni non profit».
Insomma, comunque la si metta, l?Irap va in qualche modo modificata altrimenti hai voglia, caro governo, a dire che bisogna condurre una dura lotta alla disoccupazione se poi la si affronta con armi spuntate.

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