L'altra metà del lavoro
Si possono sostenere occupazione e natalità? Sì, ma in Italia non ancora
Lo studio “Donne, lavoro e sfide demografiche. Modelli e strategie a sostegno dell’occupazione femminile e della genitorialità” è stato presentato in un incontro che ha visto la partecipazione di esperti e rappresentanti di imprese multinazionali e Pmi. La ricerca di Fondazione Gi Group con Valore D ha comparato sei Paesi europei
Fanalino di coda in Europa sul fronte dell’occupazione femminile, ma anche su quello della natalità. E se si aggiunge che anche nel campo del lavoro giovane il nostro Paese non è messo molto bene, la domanda che ci si deve porre riguarda la sostenibilità sociale ed economica del sistema Italia.
A porre questi interrogativi cercando anche dei modelli e delle strategie capaci di affrontare il problema la nuova ricerca di Fondazione Gi Group in collaborazione con Valore D “Donne, lavoro e sfide demografiche. Modelli e strategie a sostegno dell’occupazione femminile e della genitorialità”.
Alla ricerca di buone prassi
Per la presidente della Fondazione, Chiara Violini, quando si parla di sostenibilità non si può non affrontare un tema come quello dell’occupazione femminile e della complessità dell’analisi senza poter «avere delle best practice grazie a una visione allargata a diversi Paesi europei».
La ricerca ha analizzato infatti oltre l’Italia, anche Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Svezia.
Di sostenibilità sociale sociale ed economica ha parlato anche Barbara Falconer, Dg di Valore D che ha sottolineato come lo studio offra una road map su buone prassi e azioni che in alcuni casi ci sono già: politiche di buon rientro dopo la maternità, congedi paternità «messe in campo soprattutto da alcune imprese – medie, grandi e multinazionali, ma non basta serve la collaborazione pubblico/privato», ha precisato Falconer.
Che ha aggiunto: «La ricetta c’è già, basterebbe copiare» con un chiaro riferimento alle politiche e alle pratiche in atto in alcuni Paesi europei come Francia, Germania e Svezia analizzati nella ricerca che è stata poi dettagliata e approfondita in un panel cui hanno partecipato Rossella Riccò, responsabile Area Studi e Ricerche di Fondazione Gi Group; Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica Sociale alla Cattolica di Milano; Francesco Seghezzi, presidente Adapt e Ulrike Sauerwald, responsabile del Centro studi di Valore D.
Natalità e occupazione vanno di pari passo
«Esiste un problema di valorizzazione di metà delle risorse del Paese», sono queste le prime parole di Rossella Riccò che nel suo intervento ha anche ricordato come il 51% del part-time involontario sia femminile. Lo studio ha evidenziato poi che «Nei Paesi più sviluppati, dove lo Stato investe sulla genitorialità, occupazione femminile e natalità vanno di pari passo», ha aggiunto sottolineando che il nostro è «l’unico Paese convinto che se una mamma lavora il bambino soffre».
E il risultato è che a fronte di un tasso di occupazione femminile – tra i 25 e i 49 anni – che nei Paesi nord europei supera l’80% con un gap con quella maschile contenuto in 10 punti percentuali, in Italia siamo al 62% (la Spagna supera di poco il 72%).
«Il mercato del lavoro italiano ha delle criticità strutturali, ma anche una grande frammentazione», ha osservato Francesco Seghezzi che ha ricordato come in Lombardia l’occupazione femminile sia al 70% mentre in Calabria ci si fermi al 32%. «Va scardinato il modello organizzativo legato all’orario di lavoro», ha aggiunto sottolineando la necessità di riconoscere il fatto che le soluzioni vanno differenziate.
Da quarant’anni meno di 1,5 figli a donna
I problemi demografici non toccano solo l’Italia, sono comuni a tutta l’Europa «una transizione che tocca anche la Cina, lo squilibrio tra le generazioni è ovunque», ha osservato Alessandro Rosina che sottolinea il fatto che il vero problema dell’Italia è che sono 40 anni che il nostro Paese ha un tasso di natalità sotto 1,5 figli per donna «gli ultimi dati dicono 1,2. Abbiamo avuto un crollo verticale dal quale non siamo mai risaliti e in più posticipano il primo figlio». Rosina ha mostrato come nei altri Paesi europei mentre Francia o Svezia si è riusciti a mantenersi sotto i due figli per donna, «in Germania quando sono scesi sotto 1,5 figli per donna che è un vero campanello d’allarme, sono riusciti a invertire la rotta». Inoltre, la Francia è stata capace di mantenere un rapporto tra le generazioni equilibrato «mentre da noi ci sono dei veri e propri gradini di riduzione».
Da osservare poi che in Svezia il tasso di occupazione maschile e femminile è uguale e l’arrivo di un figlio non è penalizzante «noi siamo i peggiori per squilibrio occupazionale. L’Italia ha un doppio svantaggio competitivo: lo squilibrio tra le generazioni (sempre meno giovani) ma anche il sottoutilizzo giovanile e femminile nel lavoro: abbiamo il più alto numero di Neet nella Ue, a parte la Romania» ha concluso Rosina richiamando la necessità che è quanto mai necessario rimettere demografia e occupazione sui binari giusti.
Gli esempi europei
Ma come farlo? Ed è qui che arrivano gli esempi virtuosi di Paesi dove le donne non solo hanno più figli delle italiane ma lavorano anche di più. Riccò ha presentato una serie di dati sulla spesa pubblica a favore delle famiglie con figli che passa dal 3,6% del Pil della Germania al nostro 1,2 «quello verso le famiglie è un investimento», ha sottolineato la responsabile dell’area studi nel mostrare come le soluzioni «che portano effetti sulla fecondità e sul lavoro sono gli investimenti sui servizi, mentre in Italia siamo gli ultimi nell’investire nella fascia 0-2 anni».
L’Italia privilegia i trasferimenti economici, mentre in altri Paesi si punta a servizi come i nidi che in Svezia sono gratuiti dal primo anno di vita e in Spagna dal terzo. In Francia l’obbligo di frequenza scatta dai tre anni. Le famiglie italiane si trovano invece di fronte al dilemma di come gestire circa 65,5 mesi (dalla fine del congedo maternità all’istruzione primaria).
E le aziende? La survey ha coinvolto anche 383 Pmi e 73 imprese di grandi dimensioni. A presentare la ricchezza delle iniziative già in campo è stata Ulrike Sauerwald che ha citato l’estensione dei congedi di paternità fatto da alcune imprese, la flessibilità e il supporto psicologico, servizi di welfare, ma il problema è anche quello di superare il gap esistente tra Pmi e multinazionali «queste ultime hanno standard più elevati che vengono dagli altri Paesi», mentre per Pmi, ha osservato «la maternità viene considerata ancora un costo e una complessità organizzativa» ha conclusa la responsabile del centro studi di Valore D.
Osservazioni confermate poi nel corso della tavola rotonda con Donatella De Vita, Global Head of Engagement and Welfare and DEI di Pirelli; Valentina Pirrò, Recruiting, Employer Branding, Culture & Inclusion Manager di Vodafone e Stefano Fasani, Program Manager di Open-es in cui si sono presentate alcune buone prassi ma soprattutto il cambio culturale necessario per applicarle.
E di cambio culturale nel corso della mattinata ha parlato lo scrittore e insegnante Alessandro D’Avenia, intervenuto con un monologo che ha tentato di porre le basi di un cambiamento anche lessicale nell’affrontare temi quali la scuola, gli studenti, la nascita, l’essere figli e il lavoro.
In apertura foto LaPresse -Tiziano Manzon – foto del convegno di Antonietta Nembri – tabelle dalla ricerca “Donne, Lavoro e Sfide demografiche”
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