Cultura
“Si nasce sempre nel mezzo”. I saggi di lucidità di Daniele Giglioli
Certi libri sono importanti non tanto per l’accordo o il disaccordo che suscitano. Soffermarsi sui concetti non aiuta a cogliere nel segno: è piuttosto l’idea a persuadere: quella dell’originalità di ogni uomo come radice unica e insostituibile di qualsiasi legittimazione politica.
Devo a Marco Dotti la lettura dei saggi di Daniele Giglioli, che conoscevo solo come critico letterario. Sono saggi veementi e attraenti, la cui qualità principale è una felice dismisura, voglio dire una felice incapacità di prendere le misure del proprio oggetto, che emerge sempre con forza persuasiva non tanto dall’ordine del discorso quanto dalla forza del suo mettersi e rimettersi in gioco, pagina dopo pagina.
Gli ultimi due in ordine di tempo sono Critica della vittima – che forse avrebbe meritato, data l’immensità del tema e la vastità spaziotemporale delle sue risonanze, una trattazione molto più ampia (ma si sa, chi ce li concede, oggi, cinque anni di studio matto e disperatissimo?) – e Stato di minorità (Laterza, pagg. 112, €14,00), che è a mio avviso il più bello e di cui vorrei brevemente dar conto nelle righe che seguono.
Scritto sulla traccia di un romanzo di José Saramago – Saggio sulla lucidità – lo scritto di Giglioli appare mosso da una passione che possiamo chiamare politica solo a patto di restituire a questa parola la sua valenza antropologica.
L’uomo è davvero un animale politico poiché la sua sanità (salute, salvezza, conservazione) è nella sua dimensione politica, ossia nella possibilità di esprimere alla radice una libertà che non è un dono lasciatoci in dote dal potere (la libertà non ci viene concessa) ma connesso con il puro atto del nascere.
“E’ così che si nasce” scrive Giglioli verso la fine del suo pamphlet “deboli e vulnerabili ma allo stesso tempo irriducibili a qualsiasi orizzonte preesistente (…) Si nasce sempre nel mezzo, in un già dato in cui però non tutto è dato”.
Il romanzo di Saramago (che forse Giglioli sopravvaluta un po’) racconta di un paese immaginario che, senza fare nessuna rivoluzione e attenendosi unicamente agli strumenti di cui dispone per diritto costituzionale, delegittima il proprio governo semplicemente votando scheda bianca. Nessuno raggiunge il quorum, il governo è in qualche modo bandito, si temono derive violente, invece tutto procede nella pura normalità: il governo non riesce più a dimostrare per vie normali la propria necessità, e alla fine non gli resta che la via del terrorismo.
Un romanzo cupo, dove nello scollamento tra potere e vita Giglioli legge acutamente la natura profonda del legame che li unisce e i pericoli che questo legame comporta nel gioco cangiante apparente in cui il nostro bisogno di servitù si avvale della cultura e della storia per realizzare i propri miti fondativi. Molti fenomeni apparentemente senza alcun rapporto tra loro rivelano così inquietanti analogie.
Libri come questo sono importanti non tanto per l’accordo o il disaccordo che suscitano. Soffermarsi sui concetti non aiuta a cogliere nel segno: è piuttosto l’idea a persuadere: quella dell’originalità di ogni uomo come radice unica e insostituibile di qualsiasi legittimazione politica.
Chiedendo scusa per la banalizzazione retorica: noi siamo animali politici innanzitutto perché siamo. Se, viceversa, l’essere va di continuo mutuato per non dire pietito presso un’entità per la quale l’uomo è utile solo in quanto zero (Kafka, Arendt), è inevitabile che quello stato di frustrazione che accompagna la coscienza della nostra solitudine si faccia definitivo fino all’autolegittimazione e a quel punto noi non potremo mai uscire dallo stato di minorità (e di malessere) di cui parla Kant.
Un’ultima osservazione. In queste pagine il critico Giglioli si fa scrittore, la passione intellettuale acquista una forza teatrale. Come avvenne per Questa è l’acqua di Foster Wallace (versione di Danilo Nigrelli) o per certi articoli di Giovanni Testori portati in scena da Ermanna Montanari (che è la più grande attrice italiana), così anche le parole di questo saggio sembrano scritte per essere dette, pronunciate, per riprendersi la voce – puro atto fisico – che le ha generate.
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