Mondo
Si fa presto a dire “per le famiglie delle vittime”
A tre mesi dalla strage nella scuola di Newtown, non si sa ancora come utilizzare i 15 milioni raccolti per aiutare sopravvissuti e famiglie. Un problema che si ripresenta a ogni tragedia. Ma ora chi in passato ha perso un parente ha deciso di intervenire. Contro le associazioni
La tragedia delle due torri. Il massacro alla Columbine, quello alla Virginia Tech e a Newtown negli Stati Uniti. La strage di Beslan, in Russia. Per arrivare al crollo della scuola Iovine in Molise, qui da noi. Tutte catastrofi in cui muoiono molte persone, molti bambini, e decine se non centinaia di famiglie sono colpite. Le immagini in tv commuovono, le persone a casa vogliono fare qualcosa, e istintivamente aprono il portafoglio. Le sottoscrizioni "per le famiglie delle vittime" si moltiplicano, e spesso raccolgono milioni. Ma poi che fine fanno?
No, non stiamo parlando di truffe o illeciti. La domanda è più profonda: come devono essere utilizzati quei fondi? A chi devono andare? Cosa se ne deve fare? Se lo è chiesto il New York Times in un bel servizio a tre mesi dalla strage di Newtown, in Connecticut, dove in dicembre un ragazzo armato ha ucciso 26 persone (di cui 20 bambini) alla Sandy Hook Elementary School. Oggi il quotidiano scrive che una quarantina di organizzazioni ha raccolto oltre 15 milioni di dollari "per le famiglie delle vittime", ma i soldi non sono ancora stati spesi proprio perché non si riesce a sciogliere il nodo del "che farne" perché siano veramente utili. Il grosso dei fondi (10,2 milioni) è parcheggiato in una fondazione locale, in attesa che una decisione venga presa.
Questa settimana però qualcosa è successo. Circa 50 sopravvissuti e familiari di vittime di analoghe tragedie, infatti (dal World Trade Center alla Virginia Tech a Columbine) hanno diffuso un comunicato in cui dichiarano che in passato, nel loro caso, le associazioni che avevano raccolto fondi "non sono riuscite ad aiutare chi ne aveva davvero bisogno" e che quindi nel caso di Newtown, per non ripetere lo stesso errore, le donazioni dovrebbero essere trasferite, direttamente e cash, alle famiglie dei morti. Un altro comunicato, firmato anche da 14 delle 26 famiglie di Newtown, esortava a seguire questo modello per tutte le tragedie simili.
"Al punto in cui siamo, qualunque decisione verrà presa scontenterà qualcuno", ha detto il presidente della fondazione-cassaforte, William Rodgers della Newtown-Sandy Hook Community Foundation. "Nessuno ci ringrazierà per quanto faremo, lo sappiamo e siamo preparati". Alcune famiglie delle vittime sono state ancora più chiare: temono che i fondi raccolti vadano a beneficio di associazioni e iniziative a loro estranee, come accadde quando la Croce Rossa, che aveva raccolto oltre 500 milioni dopo la strage delle Due Torri, annunciò che i fondi sarebbero serviti non per assistere i sopravvissuti o le famiglie dei caduti, ma per soccorrere le vittime di eventuali futuri attacchi.
"Purtroppo di tragedie ne sono successe tante", ha osservato la figlia del preside della scuola di Newtown ucciso nel massacro, Cristina Hassinger, "e spesso i fondi raccolti vanno alle grandi associazioni che dicono di assistere le famiglie delle vittime ma poi si intascano i soldi e spariscono".
Ma se di circa 10 milioni si conosce esattamente la collocazione, degli altri 5 è più difficile ricostruire il percorso. Il New York Times ci prova, e riesce a ricostruire il puzzle, scoprendo che centinaia di migliaia di dollari sono stati raccolti da organizzazioni come il Newtown Memorial Fund (1,3 milioni), l'associazione My Sandy Hook Family (1,5 milioni), il Rotary e i Lions locali, ma anche da altre realtà minori come un canile a cui una bambina morta dava una mano o un'associazione che si occupa di autismo in onore di un piccolo autistico morto nella strage.
Insomma una grande confusione. E se qualcuno, come la My Sandy Hook Family, ha già cominciato la distribuzione di contanti alle famiglie delle vittime (l'associazione ha donato 47mila dollari a ciascuna), delle altre 40 associazioni che hanno raccolto fondi "per Newtown" non si sa molto. Ora l'idea è quella di creare un organismo di coordinamento per cercare di mettere un po' di ordine, magari con l'aiuto della fondazione-capofila, e far decidere sull'utilizzo dei fondi da un comitato di garanti indipendenti presi dalla società civile.
Le famiglie che hanno diffuso il comunicato, però, confermano le loro preoccupazioni. "Queste strutture esterne lasciano le famiglie col cappello in mano", è stato il commento di Scott Larimer, padre di uno studente ucciso in un'altra tragedia, quella di Aurora, dove nel luglio 2012 un pazzo entrò in un cinema dove stavano proiettando la prima dell'ultimo film di Batman e uccise 12 persone ferendone altre 58. Ora c'è chi chiede un protocollo nazionale che fissi alcuni parametri di riferimento per il corretto utilizzo dei fondi raccolti all'indomani di catastrofi di questo tipo, introducendo la deducibilità fiscale anche per le donazioni che non dovessero andare a organizzazioni non profit ma a singole persone o famiglie.
Tuttavia il New York Times decide di chiudere il servizio dando la parola al preside della Columbine High School, forse la capostipite di tutte le sparatorie scolastiche, avvenuta nel 1999 a opera di due ex studenti, che lasciarono sul terreno 12 compagni e un docente. "Non bisogna illudersi di risolvere tutto in fretta. Questi traumi non passano mai", dice Frank De Angelis, che era là allora ed è là ancora oggi. "Nel tempo possono emergere bisogni che all'inizio non sono chiari. Ci sono studenti che si sono diplomati nel 1999 e hanno cominciato a stare male dieci anni dopo. Ed è allora, quando è passato così tanto tempo, che si ha più bisogno di aiuto".
Nella foto: la disperazione dei parenti dei bambini fuori dalla scuola Sandy Hook di Newtown
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.