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Si fa presto a dire pacifismo

Pensare la pace, oggi, significa prima di tutto avere un’idea di futuro dell’umanità contro i tanti futuri distopici a cui la cinematografia ci ha preparato da decenni. La nonviolenza attiva è soprattutto una tecnica di risoluzione del conflitto, è strategia, è pensiero divergente. Oggi di divergente non vediamo ancora niente: questa guerra era attesa e nessuno l’ha fermata, anzi tutti l’hanno un po’ spinta. Ora sarebbe il momento che si aggiungano ai prevedibili piani di guerra qualcosa di nuovo per far affermare una strategia di pacificazione, prima che sia troppo tardi

di Angelo Moretti

Grandi autori che hanno indagato i cambiamenti antropologici e sociologici della nostra epoca, come Ulrich Beck e Antony Giddens ed altri, hanno da sempre avvertito che il tema di fondo di ogni sfida post-moderna fosse l’atteggiamento dell'umanità di fronte ad un mondo “a rischio”. In uno dei suoi ultimi lavori, il sociologo tedesco Beck, definisce il rischio la “conditio umana”, una sorta di ecosistema esistenziale in cui siamo, anche inconsapevolmente, immersi. Da quando lo siamo? Quando è iniziata questa nuova era del “post”?

Da un momento preciso: dall’attimo successivo in cui Paul Tibbets ha lasciato brillare la prima bomba atomica, denominata con il vezzeggiativo di “little boy”, sganciata dal bombardiere “Enola Gay”, chiamato amorevolmente così perché quello era il nome della madre di Paul.

Da quel momento in poi, come fece notare a Bobbio nel suo saggio “Il problema della guerra e le vie della pace”, si sarebbe dovuta andare via via formando una nuova forma di coscienza, “la coscienza atomica” ed il pacifismo sarebbe cambiato totalmente. La via della pace non rientrava soltanto tra le opzioni religiose o ideali di kantiana memoria, ma l’unica opzione contro l’autodistruzione totale dell’umanità. Il pacifismo di Bobbio, come già per altri versi quello di Ghandi, non era più solo una lotta spirituale per l’evoluzione ascetica dell’uomo e della donna, ma un concetto molto pragmatico che serviva a garantire futuro al pianeta ed una nuova affermazione del diritto. Bobbio divise il pacifismo in strumentale, istituzionale, sociale e finalistico e si augurava che prevalesse quello istituzionale, con la costituzione di un potere Terzo che fosse davvero super partes in tutti i conflitti. Ma di fatto le potenze nucleari sono cresciute in numero ed ordigni, l’ONU non ha potuto fare un granchè con il suo Consiglio di Sicurezza e la coscienza atomica è stata solo accantonata in un cassetto, nella speranza di non dover servire più, dopo la distensione degli anni ‘90.

Perché gli Usaaf, le forze armate statunitensi, reagirono con quel perverso gesto d’amore del pilota verso la mamma? Perché non avevano più altri modi di fermare la resistenza giapponese senza subire grandi perdite di soldati, dopo il massacro di Okinawa. La resistenza nipponica era certamente dalla parte sbagliata, era sull’asse di Berlino, ma nel 1945 la little boy non venne fatta esplodere come azione punitiva per i crimini nazisti, bensì come azione risolutiva del conflitto e come monito al mondo intero. E così fu.

Dopo le due immense stragi di Hiroshima e Nagasaki, la resistenza giapponese, che sembrava imperitura, cessò immediatamente.

Ora, noi sappiamo bene che la resistenza Ucraina è dalla parte giusta, sappiamo bene che, spiritualmente e filosoficamente, la resistenza degli Ucraini è impeccabile e che nessuno di noi può osare giudicarla o giudicare un uomo ucraino che spara missili stinger contro ragazzini russi mandati in guerra. Qui la morale non c’entra assolutamente nulla, la guerra di resistenza contro un invasore, proporzionata nei modi e negli strumenti, è da tutti i punti di vista una guerra giusta. Anche se va sempre ricordato che è altrettanto ed egualmente “giusta” la posizione di quegli ucraini che non intendono sparare e non per questo non difendono il loro territorio, come quei tanti scesi per strada con le bandiere in mano a cantare inni ucraini contro i carri armati che hanno preso le città

Ciò che però dobbiamo dirci con chiarezza è cosa siamo disposti a perdere, tutti, ukraini compresi, per una guerra giusta. Dobbiamo chiederci cosa saremo disposti a fare se Putin, per sopraffare la resistenza persistente ed inattesa degli ukraini, che sta umiliando l’esercito russo, dovesse ricorrere alle armi nucleari.

Il punto del pragmatismo nonviolento, che ribalta completamente l’impostazione eccessivamente teorica dei sostenitori della guerra giusta tra una potenza nucleare ed una nazione quattro volte più piccola, è tutto qui. Putin accetterebbe una sconfitta militare? Putin il tiranno si accontenterebbe di una vittoria di Pirro con la rinuncia dell’ingresso della Nato dell’Ukraina? E se reagisse, invece, con un bombardamento nucleare per schiacciare la resistenza, quale sarebbe la reazione delle altre potenze nucleari?

Pensare la pace, oggi, significa prima di tutto avere un’idea di futuro dell’umanità contro i tanti futuri distopici a cui la cinematografia ci ha preparato da decenni.

Immaginare nuove forme e nuove tecniche del dialogo non ha nulla a che vedere con la semplificazione di chi vuol vedere nei pacifisti e nei nonviolenti delle anime belle intente “a giocare alla pace” mentre gli ucraini sono costretti a far volare i missili anticarro. La nonviolenza attiva è soprattutto una tecnica di risoluzione del conflitto, è strategia, è pensiero divergente. Oggi di divergente non vediamo ancora niente: questa guerra era attesa e nessuno l’ha fermata, anzi tutti l’hanno un po’ spinta. Dal fallimento degli Usa in Afghanistan ed in Iraq, dalla contesa degli equilibri mondiali che si gioca sulle spalle dei siriani dal 2009, sapevamo tutti che la prossima guerra sarebbe stata per la Crimea, per lo sbocco in mare della Federazione Russa, per il nuovo equilibrio Russo-Cinese e per il Gas.

Nessuna sorpresa: chi dice il contrario mente. Eppure, nonostante tutto fosse prevedibile, niente è stato fatto per scongiurarla, anzi, come di consueto, tutti si sono semplicemente preparati alla guerra. La Nato, con la più grande esercitazione in Europa dalla seconda guerra mondiale (la Europe Defender, tra il 2019 ed il 2021), la Russia con gli accordi con la Bielorussia e l’intesa con la Cina del 4 febbraio.

Ed alla fine la guerra è arrivata, con la stessa lettera stereotipata del piano Z con cui Hitler aveva organizzato l’aggressione alla Polonia. Sembra un copione già scritto nel quale, chi avrebbe dovuto esercitare una tecnica moderna, la Nato o l’Occidente europeo, nulla ha fatto se non fare affari fino a ieri con il tiranno.

Ora sarebbe il momento che si aggiungano ai prevedibili piani di guerra qualcosa di nuovo per far affermare una strategia di pacificazione, prima che un nuovo “messaggio di amore” ci cada sulle teste, superando il punto di non ritorno.

Nessuno sa esattamente come costruire la pacificazione, all’orizzonte vediamo solo un’esaltazione dell’ideale bellico della resistenza armata o una netta contrapposizione sull’uso delle armi, due posizioni assolutamente importanti e doverose, ma senza alcun investimento sulla strategia non violenta di risoluzione dei conflitti.

Siamo disposti a finanziare massicciamente corpi civili di pace per aiutare l’evacuazione delle città ukraine? Siamo disposti a sostenere in ogni modo il dissenso della società civile russa finanziandolo qui in Italia? Possiamo investire su nuove forme del dialogo con la società civile cinese? Siamo disposti a condividere forme nuove di Economia?

Nel ‘56 il vincitore francese, Schumann, chiamò a collaborare lo sconfitto tedesco, Adenauer, per la costruzione della pacificazione tra i popoli. E lo fece non a chiacchiere, ma chiamandolo a condividere la principale fonte di energia, il carbone, e la principale materia dello sviluppo, l’acciaio. Nacque così la CeCA, da cui scaturisce l’Unione Europea. Oggi si parla tanto di esercito unico europeo, che anche Spinelli auspicava, ma forse è il caso che l’Europa riparta da un pensiero strategico divergente ed antico che metta al centro la condivisione del pane (il Grano) e delle relazioni (la produzione energetica), e torni a dialogare con il resto del mondo come un’immensa forza di pace attiva, investendo sulla nonviolenza ed il pensiero divergente, oltre la figura consueta del cuscinetto tra Nato filoamericana e Russia.

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