Economia
Sharing economy? Non diventi l’economia estrattiva 3.0
Il rischio è che di collaborativo e condiviso ci sia ben poco, se non sono socializzati anche il valore aggiunto o la ricchezza prodotta, oltre al rischio di impresa. Dobbiamo capire come usare queste nuove tecnologie per migliorare la capacità di generare relazioni inclusive, impegno delle persone, solidarietà e responsabilità reciproca tra le persone. L’intervento del portavoce dell’Alleanza delle cooperative sociali
L’economia digitale e la crescita di produttività si sta caratterizzando per la grandissima velocità con cui si accumulano valori economici ma anche con livelli di concentrazione della ricchezza e del valore economico prodotti in pochissimi mani.
Tuttavia per quanto una caratteristica propria dell’economia digitale è quella di favorire la crescita delle diseguaglianze, occorre ancor riconoscere che il potenziale di apertura e di interconnessione orizzontale che le nuove tecnologie portano, contiene una enorme possibilità di sviluppare forme di democrazia economica e di partecipazione di grandissima portata.
Non è un caso per altro che la grande diffusione della cosiddetta sharing economy o economia collaborativa, stia crescendo proprio grazie all’accessibilità e alle potenzialità delle tecnologie digitali. Una crescita che si accompagna anche a molta confusione, non fosse altro che sul piano terminologico, infatti si sta rischiando di definire sharing economy qualsiasi cosa che si sviluppi attraverso una piattaforma informatica.
In molto casi, soprattutto quelli più affermati sul mercato, la “collaborazione” o lo sharing riguarda i mezzi di produzione, il rischio di impresa, la catena di distribuzione del servizio-prodotto mentre non riguarda il valore aggiunto o la ricchezza prodotta che spesso viene invece “ottimizzata” ed estratta dal gestore della piattaforma, con l’effetto paradossale e beffardo di chiamare sharing economy una riedizione in chiave digitale della vecchia “economia estrattiva” dove di condivisione e collaborazione se ne vede gran poca.
Certamente le nuove tecnologie miglioreranno le funzioni di mera organizzazione e distribuzione del lavoro, che verrà gestita con maggiore efficacia e puntualità dalle macchine e dalle piattaforme (estrattive); mentre identità, solidarietà, tutela e legittimità di una governance partecipativa hanno ancora bisogno di organizzazioni fatte di persone e con le persone e le comunità. Soprattutto se dobbiamo immaginare un welfare del futuro che per essere equo e “universale” dovrà essere responsabile e partecipato dai diversi portatori di interesse.
Non basta però pensare che poiché la “domanda sociale” e i bisogni di cura delle persone sono incomprimibili, per sentirsi al riparo dalle evoluzioni e dai rischi di “disoccupazione tecnologica” anche nel settore del lavoro di cura. Certo se pensiamo alle dinamiche demografiche, i lavori di assistenza e il “mercato del welfare” sono in espansione e di conseguenza lo spazio di lavoro per cooperative sociali e professionisti del welfare è assicurato, ma questo non può bastare a sentirsi al riparo o a legittimare un disinteresse verso le nuove tecnologie digitali e al loro utilizzo anche nel settore sociale, poiché proprio il fatto che la domanda di welfare è in crescita, continuare a fornire risposte “tradizionali e consolidate” non è sufficiente ad assicurare il futuro a cooperative sociali e professionisti del welfare.
Dobbiamo invece capire come includere al meglio le nuove tecnologie non solo per digitalizzare il welfare o per affiancare ai nostri operatori socio sanitari, i nuovi robot-assistenti o i dispositivi per la telemedicina, ma dobbiamo capire come usare queste nuove tecnologie per migliorare la capacità di generare relazioni inclusive, impegno delle persone, solidarietà e responsabilità reciproca tra le persone.
Infatti uno dei grandi problemi che ci troveremo ad affrontare riguarda da un lato l’accessibilità a queste nuove tecnologie, dall’altro quali meccanismi di governance e di regolazione è necessario mettere in campo per evitare che gli enormi potenziali di sviluppo dell’economia digitale si concentrino in poche mani come, ahi noi, già sta accadendo fin troppo rapidamente.
In questo contesto la visione delle realtà associative, della partecipazione sociale, del protagonismo del mondo del Terzo settore è necessario a mantenere aperta una finestra di democrazia nell’evoluzione della società delle comunicazioni e dell’intelligenza artificiale.
Per questo siamo del parere che il modello della cooperazione sociale deve portare all’economia collaborativa esperienze in cui il valore prodotto è distribuito in modo più equo tra le parti e soprattutto quando a fianco del valore economico si produce anche capitale sociale, esperienze relazionali ed affettive, valori simbolici e quindi contribuisce a costruire senso e non solo ad ottimizzare forme organizzative.
La cooperativa dunque, anche quando si avvalga della nuova tecnologia delle connessioni e della collaborazione su piattaforma, può essere molto più che uno spazio virtuale di collaborazione, ma un vero e sostanziale luogo di condivisione.
Cooperare è infatti molti più che collaborare: è un fare insieme che si alimenta di reciprocità e questa reciprocità è il cuore del mutualismo. Il mutualismo digitale quindi non può certo accontentarsi della dimensione dello “sharing” ma deve imparare a sfruttarne il potenziale sia per far nascere nuova cooperazione, sia per rispondere alla diversificazione dei bisogni, sia per innovare radicalmente le imprese cooperative esistenti e per alimentare il capitale sociale delle comunità locali, dei territori e con le nuove tecnologie anche il capitale sociale delle “comunità virtuali”.
Conferire alle persone capitale sociale e strumenti di partecipazione e protagonismo economico, se non fa aumentare la loro ricchezza materiale, certamente contiene e riduce comunque le diseguaglianze, così come aumentare la “condivisione” di beni e servizi attraverso forme reali e paritetiche di “sharing” consente di ovviare la mancanza di possesso col potenziamento dell’uso (collettivo) di beni e servizi.
Le grandi trasformazioni in corso nella rivoluzione digitale ci propongono un'altra sfida, oltre quella della sharing e della platform economy ed è quella che riguarda la natura cooperativa dei processi di innovazione. Per certi versi alcune forme di economia digitale sono diventati strumento per estrarre dalla società il capitale sociale e privatizzarlo sotto forma di dati e ricavi di denaro, restituendo l’illusione di una condivisione “social” che è solo virtuale.
L’innovazione dei processi relazionali e di produzione di beni simbolici e relazionali (lavoro di cura, gestione dei beni culturali, processi di partecipazione, gestione di servizi) sono ambiti sui quali le cooperative potrebbero esprimere un vantaggio competitivo e una vocazione naturale ad essere meglio performanti.
Lavoro e welfare sono il cuore dell’esperienza delle cooperative sociali che dobbiamo saper rilanciare anche nel cuore dell’economia digitale, a partire dalla abilità dimostrata dalle cooperative nel organizzare risposte a bisogni emergenti, passando dall’esperienza delle cooperative sociali di inserimento lavorativo che hanno saputo portare a fattore produttivo persone espulse dal mercato del lavoro e dai sistemi economici tradizionali. Ora si tratta di trovare il modo per mettere a frutto quella creatività per cercare di rendere democratico, accessibile e inclusiva la nuova rivoluzione industriale ed economica guidata da digitalizzazione e intelligenza artificiale.
*portavoce dell’Alleanza delle cooperative sociali
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