Mondo

Sguardi felici a Calais

Nell'orrore e tra le macerie dell'Europa, i migranti sanno anche sorridere, fare comunità, tessere relazioni. Quanti, nei quartieri del lusso, della finanza, del benessere di Parigi, Roma o Milano sono ancora capaci di donare e ricevere un sorriso? La fotografa Ludovica Anzaldi è andata a cogliere questi sguardi

di Marco Dotti

«Dovessi dire che cosa mi ha colpito, che cosa mi ha colpito davvero dentro tutto quel dolore, sono gli sguardi felici». Fotografa, Ludovica Anzaldi vive e lavora a Parigi nel campo della moda. È molto attiva nel mondo del volontariato e delle associazioni. Ma non le basta. Chi ha uno sguardo attento sul mondo, pretende molto da sé. Per questo, Ludovica è andata a vedere, anzi a vivere la vita quotidiana a Calais. Non voleva "osservare", ma cogliere che cosa stava accadendo proprio mentre in quella che è stata volgarmente chiamata "giungla" le ruspe iniziavano a distruggere.

Che cosa? Semplici baracche? Un villaggio? Relazioni, scambi, vita. Vita doppiamente sradicata: dalla migrazione e dal cinismo della "polizia" in questa Europa sempre più marcata da frontiere interne.

«Ciò he sta accadendo in Europa è troppo grave, non possiamo limitarci a guardare. Ma poi, a guardare "che cosa"?». Immagini di ruspe che distruggono, immagini fredde anche se in movimento, immagini che ci fanno reattivamente commuovere, ma attivamente non smuovono – perché non interrogano – nulla. «Ci sono momenti per fare alcune cose e momenti per farne altre. Davanti a questa tragedia ognuno deve fare il suo, capire che è venuto il momento di agire. Io agisco con quello che so fare e che professionalmente faccio, anche se la mia professione mi dirigerebbe su un altro campo». Ci sono molte immagini, corpi mutilati, sovraesposti. I corpi che poco o nulla ci raccontano della vita minuta, quotidiana di chi fugge da guerre e carestie e, a fatica, magari in una "baraccopoli", pur nella precarietà, tenta di ricostruire altre relazioni di vita. «Quello che volevo far passare è che le persone che vivono a Calais e con le quali ho vissuto per più di una settimana sono persone sorridenti, che hanno una carica di simpatia incredibile…. Vivo a Parigi e di persone che sorridono ne vedo veramente poche. Perché a Calais, senza confort, sradicata, in queste baracche, sorride?».

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Che sia proprio questo che non sopportiamo: vedere un sorriso su viso di coloro che avrebbero tutto il diritto e tutte le ragioni per non sorridere e non vederlo più qui, nel cuore delle nostre metropoli, nei quartieri del benessere, della finanza, della moda, del lusso?

Che sia questo – al fondo della questione – ciò che non si tollera di Calais? «Tutti ricchi, con case, quindici lavori, feste a cui andare, aperitivi da consumare e poi… non siamo nemmeno capaci di sorridere. La cosa assurda è arrivare a Calais tra persone che hanno perso tutto, tra uomini che hanno perso la moglie, donne che hanno perso i figli, figli che hanno perso le madri e vedere che sorridono, che si raccontano e ti raccontano, persone pacifiche, solidali tra loro e persino con te, che arrivi da lontano e vuoi capire. Spero di essere riuscita a far passare, nelle mie fotografie, questa tensione positiva

che attraversa l'orrore in cui ovviamente vivono queste persone. L'orrore non deve avere l'ultima parola e qui non ha ancora avuto l'ultima parola».

Gli interventi di ruspe e agenti di polizia stanno strappando a chi vive a Calais il diritto di questa "parola", il sorriso. «Nel bene o nel male, le persone che vivono a Calais sono riuscite a fare comunità, creando relazioni, amicizie, spazi di incontro e dialogo. Distruggere tutto questo con la scusa che "vivono nel degrado" non significa combattere il degrado, significa casomai consegnare le loro vite già provate a un degrado più grande. Nelle piccole comunità che si sono create a Calais ci sono anche bambini orfani, anziani, famiglie che si aiutano a vicenda. Se le spostiamo così, quante moriranno? Il dolore uccide come le guerre. Ma creerà problemi di ordine pubblico a tutta l'Europa, incattivendo gli animi e creando rancore. Dicono poi che "rifiutare di andare nei container" è "rifiutare l'accoglienza"… Ma qui siamo al paradosso: chi accetta di andare in un container, a parte la bruttezza del container, deve dare impronte digitali e non solo, entrando in un circuito burocratico e di controllo senza fine».

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Ma il punto più critico è questo: «la maggior parte di coloro che stanno a Calais ha la famiglia in Inghilterra e, una volta date impronte digitali e accettato il trasferimento nei container, tutti sanno che in Inghilterra non ci andranno mai più. Non vedranno più le loro famiglie. Di conseguenza preferiscono fuggire ancora una volta. Ma stavolta non fuggono dalle guerra, fuggono da noi. Che facciamo le guerre in altro modo e con altri mezzi proprio a coloro che diciamo di voler accogliere». Quando chiedo a Ludovica che cosa può succedere – rabbia? ribellione? rassegnazione? – mi racconta che «la seconda volta che sono andata a Calais i sorrisi cominciavano a non essere più così luminosi, appariva la tristezza. Stiamo portando tristezza, generando sofferenza sulla sofferenza. La gente di Calais vuole una sola cosa: avere una vita normale, lavorare, stare con i propri cari. E noi che cosa facciamo? Anziché aiutarli, li massacriamo. Scappano dall'orrore, cercano di sottrarsi all'orrore e noi li ributtiamo nell'orrore. Se l'accoglienza dell'Europa è questa, faremmo prima a chiamarla guerra. Con tutte le persone che ho incontrato a Calais sono rimasta in contatto, ci sentiamo e in caso di estrema emergenza – e loro sanno che cosa significhi "estrema emergenza", non come noi che piangiamo per il caffé troppo ristretto o la pasta troppo al dente – ci sentiamo. Con chi abita a Calais non puoi non stabilire una relazione, sono persone talmente generose che ricevi più di quanto dai. Il problema non era stare a Calais, il problema è tornare a Parigi, dove abito, e vedere questi volti tristi».

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