Non profit

Servizi sociali, una riforma con tre buchi

Le proteste dei docenti

di Pietro Vernizzi

Dietro la lavagna finiscono il taglio delle ore, il tirocinio al quarto anno (ma i minorenni per legge non possono lavorare) e l’esiguo numero di strutture disposte ad accogliere studenti Un pizzico di corporativismo c’è. Il taglio delle ore si tradurrà infatti in una riduzione di cattedre e nel trasferimento di docenti. L’appello al ministro Gelmini lanciato dai docenti di “Metodologie operative nei servizi sociali” degli Istituti professionali dei Servizi sociali non è, tuttavia, solo una perorazione in difesa degli interessi degli appartenenti alla relativa classe di concorso quanto, semmai, dell’intero impianto formativo del percorso di studi. Un curriculum che, come prevede il nuovo Regolamento di riordino, punta a sfornare diplomati che posseggano «le competenze necessarie per organizzare ed attuare interventi adeguati alle esigenze socio-sanitarie di persone e comunità, per la promozione della salute e del benessere bio-psico-sociale».
La riduzione del numero di ore a disposizione della materia, lamentano in sostanza i docenti di Metodologia, colpisce proprio la disciplina che realizza la sintesi fra teoria e pratica. Nonostante, questo il paradosso, l’obiettivo della riforma sia proprio quello di accrescere il livello di professionalità degli studenti che escono da questi istituti superiori, i futuri tecnici cioè del welfare locale. Metodologie, infatti, a partire dal progetto di riforma del 92, ha acquisito sempre più spessore nell’economia del piano di studi passando, detto brutalmente, da momento quasi di intrattenimento degli studenti (preparazione alle attività di animazione con minori, anziani e disabili) a fucina di specifiche abilità e, soprattutto, a snodo dei rapporti fra scuola, servizi territoriali, utenti, famiglie e imprese sociali. Un processo di crescita della materia, insegnata solo nei primi tre anni, che avrebbe meritato semmai la promozione anche al biennio finale.
«La presenza nei primi anni», osserva Pasquale Caputo, docente dell’istituto Oriani-Mazzini di Milano, «si spiegava con la circostanza che il vecchio ordinamento rilasciava già il titolo triennale mentre ora con la riforma ci sarà solo il diploma quinquennale». Quale insegnamento, si chiedono i docenti, svolgerà nell’area di indirizzo delle classi quarta e quinta il compito di Metodologie visto che non esistono insegnamenti che possano fungere da punto di raccordo pratico ed operativo dei contenuti teorici trattati dalle altre discipline? «Se proprio si doveva tagliare per risparmiare, si poteva almeno decidere di spostare lo studio della materia dai primi tre anni agli ultimi tre», gli fa eco la professoressa Venia Lotteri del professionale Piero Sraffa di Crema.
Il riordino, tuttavia, nell’ottica di una maggiore professionalizzazione, sostituisce la cosiddetta terza area del biennio finale (o microspecializzazione) con l’alternanza scuola-lavoro. Una novità positiva che, però, rischia di creare altri problemi. «Nei servizi sociali», commenta Lotteri, «si può lavorare solo se diciottenni. Gli studenti del quarto invece hanno invece in media 17 anni». C’è poi il rebus sul numero limitato delle strutture sociali pubbliche e private in grado di accogliere gli studenti in alternanza. «Gli asili nido, ad esempio, accolgono solo pochi tirocinanti per evitare che il continuo cambiamento dei volti disorienti i bambini», prosegue la docente cremasca. Infine, gli sbocchi professionali. La riforma non chiarisce quali siano, né le Regioni si preoccupano di disegnare figure sociali ad hoc. «Va bene l’alternanza: ma se le scuole non sanno cosa potrà fare l’alunno da grande, come fanno a progettare un percorso più professionalizzante?», taglia corto Lotteri.


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