Volontariato

Sergio Quinzio. Resurrezione di un anarchico

E’ stato un grande intellettuale, che non faceva sconti a nessuno. Nemmeno al Padreterno. Teologo, visionario e scrittore.

di Gino Girolomoni

Con il titolo Il silenzio di Dio uscì nel 1982 un saggio di Quinzio da Mondadori con la presentazione di Vittorio Messori. E questo del silenzio di Dio è anche il grido che il nostro vecchio e straordinario Papa ha lanciato nel mondo da San Pietro l?11 dicembre scorso: “L?umanità colpita da conflitti e carestie deve affrontare anche una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio!”. Sergio scrisse nella presentazione questa affermazione di Dostoevskij:”Soloviev e io crediamo nella completa resurrezione della carne di ogni persona e crediamo che questa resurrezione avrà luogo su questa terra”. Con queste due chiavi di lettura credo si possa riaprire il caso Sergio Quinzio che, per tutta la sua vita e con tutti i suoi libri e conferenze, è stato il più grande testimone nei nostri tempi di quel Regno di Dio che comincia appunto con quella fede di Soloviev e Dostoevskij, la risurrezione dei morti . E l?altra chiave di lettura il lamento-preghiera sulla non realizzazione di tali grandi promesse. Ma chi era Sergio Quinzio? Anche se lo conosco bene per essergli stato amico per trent?anni e aver letto tutti i suoi scritti e aver condiviso gran parte delle sue grandi speranze, lascio a Vittorio Messori descrivere il personaggio come fa nella presentazione del libro citato: “Forse in pochi casi il temperamento, la vita, il personaggio stesso sono così strettamente legati al suo pensiero. Un uomo che si dice timido ed è tra i più estroversi e piacevoli nella torrenziale conversazione, si lagna di un suo presunto isolamento ed è da anni al centro di polemiche spesso furibonde, firma su autorevoli giornali, è pubblicato e tradotto dai maggiori editori, si compiace di un?ostinata ipocondria definendosi ?un povero vecchio?. Quel suo bellissimo barbone rossiccio lo fa apparire simile a quei rabbini che tanto ama e che spesso amano così poco lui. Quinzio implora gli ebrei di abbandonare la tentazione sionista che a lui pare suicida se non blasfema. Così attento, secondo la migliore tradizione ebraica, ai segni del cielo e a quelli della terra, Quinzio è uomo di vastissime letture, ma di due soprattutto si nutre: la Bibbia e i giornali. Quanto alla Bibbia pare che tutta la conosca a memoria, soltanto così sarebbe stato possibile buttare giù di getto le più di mille pagine del suo Commento, dove i 47 libri dell?Antico Testamento e i 27 del Nuovo sono legati in una impressionante rete di riferimenti più e più volte incrociati e sovrapposti. Inviso a chi ha fatto della teologia un mestiere, sospetto ai laici perché troppo cattolico e sospetto ai cattolici perché troppo laico. È di destra o di sinistra, si chiedono i miserabili classificatori del mistero dell?uomo. Qualcuno lo scambia per conservatore o addirittura per reazionario, mentre invece è un apocalittico che è il contrario della soffocante ideologia piccolo o grande borghese. Forse si potrebbe estendere a lui una definizione in cui io stesso credo di riconoscermi: e cioè un anarchico che crede nel peccato originale. Quinzio è tra i pochi che prendono sul serio l?inquietante domanda di Gesù e che da sempre i cristiani cercano di dimenticare: ?Credi forse che, quando il Figlio dell?uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra??. In questo libro, come in tutti gli altri, il suo leitmotiv così recita: ?Tutta la storia cristiana appare come la storia di un continuo fallimento della originaria attesa della perfetta redenzione dal male e dalla morte. La signoria del Cristo non si è attuata, la speranza messianica è andata delusa?.Non ho mai taciuto a Quinzio il fascino per questa sua teologia tragica, così lontana dalle tazze di acqua tiepida offerta da coloro che Guido Ceronetti, un suo amico ed estimatore, definisce ?indigesti preti razionalisti alla Hans Kung?, ma anche la mia ferma convinzione che per sostenere la sua tesi non sia necessario spingersi così lontano. Cristiani come Quinzio siano pur discussi e contestati, come a volte le loro idee sembrano meritare, ma siano anche ringraziati per quel loro dispitto per Papi che parlano come segretari dell?Onu, per vescovi che parlano come filantropi, per preti che parlano come manager ecclesiali, per cristiani che parlano come democristiani. Questa che giunge dall?Italia profonda è una testimonianza pagata ogni giorno di persona. Viene fuori dalle tenebre di Abramo e dalle catacombe. Convincente o no, merita di essere discussa in questo tempo di esperti che, mentre si va alla rovina, ci spiegano garruli in che cosa hanno sbagliato gli esperti precedenti”. C?è un altro amico comune che l?ha frequentato per trent?anni, Guido Ceronetti, (la corrispondenza tra i due la sta curando Giovanni Marinangeli per Adelphi) del quale riporto alcuni ritratti di Sergio Quinzio: “Sergio era un diatribista medievale, una specie di mastino di Dio, alla Tertulliano, alla Abelardo, all?Eriugena, modernamente alla Léon Bloy e alla Bernanos, con sfumature di mitezza in più, stilistica e personale, ma nella sostanza di molto simile implacablità. (…) In realtà la sua spada evangelica e la sua medievale solitudine teologica non ammettevano interpretazioni bibliche così lontane dalla propria, nel frattempo venuta a piena maturazione nel Commento pubblicato da Adelphi, che tuttora trova me piuttosto freddo, mentre amo, preferendolo Dalla gola del leone, dell?escatologia dirompente, delle visioni profetanti, dell?analisi tragicista del nostro secolo alla luce della parola biblica più tagliente, più dura? Lo shomer-ha-llailah di Isaia 21 è tuttora al suo posto di guardia e bisogna tornare a domandargli a che punto è la notte. Quella notte sulla quale il nostro grande amico Sergio ha vegliato sempre con indicibile pena messianica e di cui ha raccontato le ore, i suoni, le attese, le voci che Dio fa dai reni salire all?orecchio interno. I suoi libri non abbandoneranno, nel deserto, i credenti”. In un altro libro, Dalla gola del leone, Sergio, colpendo sempre la stessa pietra, aveva scritto commentando 1 Cor 15-16 dove San Paolo afferma che se i morti non risorgono nemmeno Cristo è risuscitato: “Sono duemila anni che mastico la briciola data come pegno del pane escatologico, il mio stomaco è vuoto, la mia bocca stanca di masticare invano, ma il mio cuore si ostina ad aspettare il pane che sazi finalmente la fame”. E la fame è quella della giustizia e della visione di Dio, che solo può farci uscire dall?Egitto del Faraone sempre più potente e malvagio. Sì, io credo che Mosè per ordine e protezione divina abbia portato fuori dall?Egitto il suo popolo, ma dopo 3.500 anni, perché ci ritroviamo a fabbricare mattoni senza paglia e veniamo frustati ogni giorno nel cuore e nella mente? O vogliamo continuare a credere che siamo stati salvati? Vi immaginate il popolo di Israele che tratta con il faraone le ferie, la tredicesima e rimane lì? E il Messia, non credi forse che l?Atteso dalle nazioni fosse Gesù? Sì, era Lui, ma lo abbiamo condannato a una morte terribile. Ma non è risorto? È risorto, ma solo lui, e noi e i nostri cari, e i santi, e i martiri che implorano la salvezza quando risorgeranno? Adesso lancio anch?io il sasso nella fionda dello gnostico Ceronetti per farvi capire bene come io sia grato al Signore di avermeli fatti incontrare entrambi: “Il peggior danno fattoci dal cristianesimo è di averci sparato in testa per un tempo infinito, in tutti i luoghi in cui si è arrampicato, che siamo stati liberati! Non riusciamo più a togliercela questa infame pallottola!”. Io, come consigliava Messori a Quinzio, non oso tanto, ma sono catturato da una lancia che trapassa l?anima in questo modo. La chiave che apre il Regno di Dio, per Sergio Quinzio, è la Risurrezione dei morti, così ha scritto in tutti i suoi libri, così ha detto in tutti i suoi discorsi. In confronto a questa grande promessa il resto sono briciole o, come direbbe Giovanni Testori, “marmellata cristiana”. Abbiamo inventato la teologia che ogni speranza ha portato via e Karl Popper affermava che la teologia fosse solo mancanza di fede. Ceronetti vede Quinzio come Ezechiele nella valle piena di ossa intorno alle quali dovrebbe ricrescere la carne perduta: “Ecco, là in quella valle un uomo piange e non dorme per quell?antica promessa mancata”. Il Silenzio di Dio è il tema che tratteremo quest?anno per ricordare l?indimenticabile Sergio Quinzio il 22 marzo nel Monastero di Montebello, vicino a Urbino, cui possono partecipare tutti quelli che non hanno paura di interrogarsi sulle domande che turbano i credenti e che con Quinzio non hanno lasciato indifferenti anche tutti gli altri.


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