Bel sottotitolo per un’indagine mordi e fuggi sull’innovazione nel non profit: campione ridotto (quattrocento e passa organizzazioni) per un campo di osservazione amplissimo e assai variegato. Però il promotore dell’indagine è autorevole: nientepopodimeno che la Johns Hopkins University, famosa per i suoi studi comparativi sulla socieltà civile e il settore non lucrativo in vari paesi, tra i quali – e fu una ricerca pionieristica – l’Italia. Visto che non solo è utile separare i fatti dalla finzione, ma anche non insistere troppo sui dettagli metodologici (soprattutto in questo contesto) meglio andare dritti al sodo. Le non profit innovano? Sì, quasi l’80% dichiara di aver gestito una qualche progettatualità etichettabile come “innovativa”. Il problema viene dopo. E ha un nome ben preciso: scalabilità. Che nel gergo informatico significa estendere le potenzialità di un dispositivo con ulteriori capacità e funzionalità (nel caso servano). Applicandola all’innovazione sociale pare una cosa piuttosto complicata che fa apparire un pò scontati gli appelli alla trasferibilità e alla disseminazione dell’innovazione con cui si infarciscono i formulari dei bandi di gara. Nel rapporto si fa esplicito riferimento alla necessità di risorse dedicate a questa funzione. Non solo capitali per elaborare attività innovative e procedere a un primo loro testaggio, ma anche per sostenere una loro applicazione dinamica ed evolutiva. Su questo fronte forse potrebbero giocare un ruolo rilevante i network, non come piattaforme di rappresentanza o strutture di supporto ma piuttosto come centri di eccellenza magari frutto di joint venture tra strutture di produzione della conoscenza e imprese.
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