Scuola

Senza voti, ma con tanto valore in più

Mentre il Parlamento, seguendo il ministro Valditara, ha approvato il ritorno del voto di condotta (con relativa bocciatura se sotto il 6) e dei giudizi sintetici anche nella primaria, tra gli insegnanti si fa strada una consapevolezza sempre più netta: i voti non servono e la valutazione formativa è molto più efficace. Anche perché obbliga a mettere in discussione la didattica. L’esperienza sul campo di un docente di storia e filosofia e dei suoi alunni

di Massimo Iiritano

All’inizio ho provato ad alternare valutazioni descrittive a valutazioni numeriche di fine periodo, ma non ha funzionato. Il numero interveniva improvviso, come un “buco nero” capace di divorare in sé ogni tentativo di costruire un percorso significativo, autenticamente formativo.

Lì ho visto, concretamente, che non poteva esserci alternativa. E a guidarmi sono stati loro, i miei ragazzi. Con la VC il percorso è stato del tutto naturale, sin dall’inizio. Una classe in cui ho insegnato solo per un anno, il quinto, e solo per 3 ore di storia. Un dono inaspettato per il mio percorso di autoformazione e di crescita professionale, fin qui ancora incerto, perlomeno su questo punto.

I ragazzi e le ragazze di questa classe mi hanno sorpreso subito per la loro capacità di attenzione mai passiva, interessati, disposti a lasciarsi stimolare e coinvolgere in percorsi di ricerca: dalla costruzione di ipotesi controfattuali, alla storia per immagini, fino ad un appassionante studio diretto dei documenti, come è stato per il Ventennio, grazie alla straordinaria dotazione della nostra biblioteca.

Ma perché racconto tutto questo, cosa c’entra con il metodo di valutazione? Qui è il punto decisivo: come loro stessi mi hanno poi scritto e fatto capire, le due cose stanno insieme. Coinvolgere i ragazzi in un percorso diverso di valutazione, che metta da parte la scala numerica e il concetto stesso di “interrogazione”, richiede appunto la condivisione di un percorso di ricerca e di studio che non può più essere lo stesso. Che dalla diversa modalità di valutazione trae lo stimolo per ripensarsi in maniera nuova. Che si apre alla partecipazione diretta e alla condivisione dei metodi, dei modi, dei linguaggi, dei tempi.

Ed ecco che quei “commenti” – come loro li chiamavano perché così si chiamavano negli spazi del registro elettronico, al posto dei voti numerici – hanno potuto pian piano essere accettati, compresi, apprezzati. Infine riconosciuti come una vera e propria liberazione.

È stato così nella classe quinta, oramai al termine di un lungo percorso scolastico e nella nuova classe terza, in realtà all’inizio molto più riluttante ad accettare questa novità. «Prof non voglio sapere il voto, volevo chiederle solo come posso capire che cosa e come migliorare rispetto alla valutazione che mi ha dato», mi hanno detto. Ecco come la valutazione descrittiva, il vuoto al posto del numero, può diventare – nonostante l’inevitabile smarrimento inziale – occasione formativa.

Ma poi, come passare al voto di fine quadrimestre?

La risposta sono stati ancora una volta loro ad offrirmela. La loro condivisione, la fiducia che si respirava in quella classe, mi ha insegnato la via, che non avevo ancora trovato in nessun corso o libro.

«Ragazzi, che ne dite di propormi la vostra autovalutazione?». Ed ecco che, pian piano, ognuno di loro, insieme al voto proposto, mi ha scritto le sue considerazioni, riflessioni, valutazioni sul metodo. E a fine anno, quando abbiamo potuto trovare anche il tempo per riconsiderare insieme il percorso fatto, dalle loro parole ho avvertito la maturità di chi aveva veramente saputo comprendere e apprezzare la nuova proposta formativa, immaginata e costruita insieme a me.

«Sì prof, perché così le cose si imparano meglio, in maniera più approfondita, non per l’interrogazione, ma per il proprio interesse…».

«Non avere l’assillo del voto, delle medie, dei numeri, ha liberato la nostra voglia di studiare, di ricercare, di proporre approfondimenti imprevisti».

Penso allora alle classi più difficili, agli alunni meno interessati, più distratti da altro… A tutti quelli che non ho potuto veramente mai raggiungere, coinvolgere, rendere partecipi. E ripenso all’esempio straordinario del mio professore di italiano, Antonio Ameduri. Nella sua biblioteca, ritrovo un testo che mi dice tutto di lui e del suo straordinario modo di essere e di insegnare: L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola. Si tratta di un testo degli anni Settanta, il momento in cui già tutto era stato valutato e pensato. Così come mi capita di scoprire, per caso, in un altro testo, pubblicato nel 1981 nella rivista “Scuola Italiana Moderna”, che citerò in seguito.

In un capitolo del libro, dal titolo “Processo al metodo antiautoritario”, in cui si racconta di un vero e proprio processo messo in atto in una classe, con difensori e accusatori e con tanto di giudizio finale, Anna dice così : «Io sono d’accordo con la Luisella che ha detto che ci sentiamo più adulti con il metodo antiautoritario perché invece col metodo autoritario si sta lì come dei bambocci sempre con la paura che il professore si alza e dà qualche nota o qualche brutto voto; a me sembra più utile fare questo lavoro perché non si studia sempre la solita lezione a memoria a casa e dopo magari si prende anche un brutto voto e poi dopo tre giorni non si sa più niente della lezione che si è studiata; invece col metodo antiautoritario, parlandone insieme, le cose si ricordano di più» (p. 143).

Parlandone insieme… E cosa altro dovrebbe essere il momento della valutazione se non una parte di quel dialogo educativo in cui si parla, si pensa, si studia insieme?

Cosa altro dovrebbe essere il momento della valutazione se non una parte di quel dialogo educativo in cui si parla, si pensa, si studia insieme? Eppure siamo ancora qui a fronteggiare ostilità ancora troppo diffuse

Tutto dunque sembrava già scritto, eppure siamo ancora qui, a fare i conti con le stesse identiche problematiche e a fronteggiare ancora le stesse identiche ostilità ancora troppo diffuse, purtroppo.

«Un meccanismo assurdo», scriveva Salvatore Alosco nel suo articolo del 1981 in “Scuola Italiana Moderna”: «Già del resto Lombardo-Radice affermava che staccare il giudizio sia dalla concreta situazione dello scolaro, cioè dal suo effettivo procedimento mentale e morale, e renderlo astratto indicandolo con un numero è quanto di più assurdo si possa immaginare, e condannava il meccanismo della classificazione per cui 8+7+6+5 e 5+6+7+8 danno la stessa “media”, senza alcuna considerazione per la diversità della situazione».

È davvero inevitabile ridurre tutto il percorso formativo ad una arida media aritmetica? Ha davvero senso che il numero attribuito ad ottobre debba “pesare” ancora perlomeno fino a gennaio, piuttosto che dare merito e valore ai progressi del processo di apprendimento, qualora questi siano avvenuti? E ancora: può essere ancora “l’interrogazione” l’unico o perlomeno privilegiato metodo di valutazione?

È davvero inevitabile ridurre tutto il percorso formativo ad una arida media aritmetica? Ha davvero senso che il numero attribuito ad ottobre “pesi” ancora a gennaio, piuttosto che dare valore ai progressi del processo di apprendimento, se questi sono avvenuti?

«L’interrogazione, che ha lo scopo di attribuire un numero (voto), non solo rende passivo l’allievo, ma deforma lo stesso rapporto insegnante-alunno, poiché trasforma l’insegnante in giudice e funzionalizza l’alunno al voto». Era così nel 1981, è così ancora oggi. Eppure, non è davvero impossibile e neppure difficile procedere altrimenti.

Massimo Iiritano è docente di filosofia e storia presso il Liceo classico Galluppi di Catanzaro, insegna anche Filosofia dell’educazione presso l’Istituto Universitario G. Pratesi ed è presidente dell’associazione nazionale Amica Sofia, la cui prossima scuola di formazione sarà dedicata proprio al tema della valutazione, con l’intervento tra gli altri di Cristiano Corsini (info www.amicasofia.it).

In apertura la maturità 2024 al liceo scientifico Francesco Redi di Arezzo, foto di Daiano Cristini/Sintesi 

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