Facciamo che è tutto vero. Che il PD vuole il silenzio assoluto sulla riforma del terzo settore. Che il presidente di commissione Epifani blocca pretestuosamente le richieste di audizione. E pure che Poletti e Renzi vogliono svuotare lo stato sociale a vantaggio delle coop. Ecco in questo modo il campo è sgombro da polemiche puntuali e arriviamo nocciolo della questione. Al “ground zero” della riforma, ovvero l’idea di società che anima il Movimento Cinque Stelle, la seconda (o forse anche prima) forza politica emersa dalle ultime elezioni. E, a prescindere dalla posizione, certamente la principale new entry che ha arricchito la famigerata “offerta politica”. Sì perché riformare il terzo settore non è solo un tema da legulei: forme giuridiche, sistemi di controllo, politiche di incentivo… Tutte cose utili, ma nella misura in cui sono funzionali a migliorare l’infrastruttura della società civile e le modalità attraverso cui essa contribuisce allo sviluppo economico e all’esercizio della funzione pubblica.
Rispetto a questo obiettivo la posizione del M5S sembra agli antipodi. Pendola da un estremo all’altro e non sembra aver trovato un punto di equilibrio. Da una parte, chiamando in causa il garante della concorrenza perché si ravvisa nelle norme di riforma una lesione del principio di concorrenza, enfatizza il principio dello scambio di mercato. All’opposto, quando di parla di svuotamento dello stato sociale, estromette il terzo settore dal perimetro entro il quale già contribuisce, e non da ieri, a coprodurre beni di pubblico interesse attraverso forme di accordo (contrattuale e, meno spesso, partenariale) con l’amministrazione pubblica.
Dunque “no profit” non è un errore come si potrebbe immaginare e sul quale fare facile ironia. E’ la trasposizione terminologica di un approccio che riporta le lancette dell’orologio indietro di una trentina d’anni, riproponendo la sindrome del terzo settore come “terzo escluso”, tertium non datur: senza diritto di cittadinanza per quanto riguarda il contributo alla definizione (e implementazione) di tutto ciò definisce l'”interesse generale” e liquefatto in un’economia di mercato dominata dal principio della libera concorrenza.
Peccato se fosse così. Perché, paradossalmente, M5S è un’espressione – esasperata ma autentica – di una cultura societaria che irrompe nel dibattito politico, ma anche nell’arena economica. Coerentemente con questa missione la strategia non dovrebbe consistere nel solo azzeramento delle posizioni, ma nella ricombinazione del fattori. E ricominciare dal terzo settore poteva essere una buona palestra per un processo di riforma fatto da “cittadini”.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.