Economia
Senza territorio l’impatto sociale è un buco nell’acqua
Oltre al fin troppo conclamato rischio di green e social washing ne esiste un altro, invece molto sottovalutato: che gli ESG, soprattutto se si configureranno non semplicemente come uno standard certificatorio ma come un paradigma di sviluppo, generino crescenti disuguaglianze all’interno dell’economia per effetto di un mismatch di offerta in grande crescita che però non intercetta una domanda coerente
Lo schema di gioco è ben conosciuto. Da una parte l’economia capitalistica che dichiara (e tenta) di riformarsi. Dall’altra il settore pubblico che (ri)mette mano ai sistemi di regolazione. E come terzo incomodo la società civile che verifica l’autenticità dell’intento riformatore del primo e sollecita la capacità di controllo del secondo. Solo che questa volta la partita non è come le altre. Ha l’aria di essere una finale. Un po’ per l’oggetto del contendere che è rappresentato dalla finanza ovvero dal fulcro del modello di sviluppo di cui si evidenziano realizzazioni e limiti sempre più evidenti. Un po’ per la modalità di autoregolazione legata a un set di criteri ambientali, sociali e di governance – in codice ESG – che dovrebbe fungere non solo da sistema di controllo sulla riduzione delle esternalità negative, ma piuttosto come misura della riconversione profonda di un settore che genera e gestisce una risorsa, quella finanziaria, cresciuta così tanto negli ultimi anni da soverchiare il valore dell’economia reale.
Gli ESG rappresentano quindi la frontiera dell’autoriforma della finanza mainstream. La loro origine non risiede nella sola finanza alternativa che pure è cresciuta negli ultimi anni sia come quota di mercato sia come capacità elaborativa rispetto alla misurazione delle sue performance. E non rappresenta neanche una sorta di evoluzione degli investimenti socialmente responsabili (SRI) affermatisi più per l’intento di limitare o di escludere settori dannosi per l’ambiente e la società (come ad esempio la produzione e il commercio di armi). Il campo di applicazione degli ESG è legato piuttosto alla nascita e affermazione dell’impact investing che opera nella complessa e sfidante posizione di segmento specialistico orientato a perseguire obiettivi positivi e duraturi di trasformazione sociale e, al tempo stesso, di attore del cambiamento per l’intera industry finanziaria. Un settore che appare più flessibile nell’intercettare due elementi che caratterizzano i mercati finanziari attuali ovvero la grande liquidità e il predominio, anche in termini di narrazione e cultura, del venture capital.
Da dove scaturisca questo tentativo di autoriforma non è difficile da immaginare, in particolare guardando all’evoluzione di breve periodo. Se è vero infatti che gli investimenti socialmente responsabili non rappresentano una novità in termini assoluti, è vero che dalla crisi del 2008 in avanti e con l’ultimo shock pandemico si sono resi evidenti i limiti del modello di sviluppo dominante anche agli occhi del principale vettore di tale modello e non solo alle sue controparti. Il fronte ambientale, in particolare, è rilevante perché evidenzia il rischio, più che concreto, di compromissione e distruzione definitiva di risorse – acqua, aria, terra – che per risultare ancora disponibili non possono essere più considerate come asset produttivi dai quali estrarre, massimizzare e concentrare un valore considerato inesauribile. Questa tendenza alla commodificazione delle risorse è visibile anche negli approcci green di tipo meramente riparativo – ad esempio l’utilizzo delle foreste russe da parte delle aziende energetiche per vendere carbon credit – e riguarda non solo l’ambiente, ma anche aspetti sempre più pervasivi e profondi dei comportamenti individuali e sociali modificando così il “codice” della natura umana a livello di preferenze e convenzioni. Si pone quindi un problema etico fondamentale perché forse per la prima volta dalla modernità in avanti la sfera della morale e quella della “coazione a produrre” sembrano convergere intorno a una sfida di sopravvivenza non più rinviabile.
I criteri ESG, da questo punto di vista, obbligano a cambiare punto di vista nel guardare all’evoluzione dell’economia capitalistica chiedendosi non semplicemente come sfuggire al suo realismo senza alternative, ma guardando piuttosto ai cambiamenti generati al suo interno da fattori che non possono essere resi, almeno non completamente, in termini di produttività secondo i suoi tradizionali schemi di gestione e governo. Per capire quanto è rilevante la questione basti ricordare il tentativo in atto da parte della Harvard Business School di incorporare nei modelli di contabilità ordinaria questi criteri non confinandoli, come avveniva nel recente passato, alla sola rendicontazione sociale.
La strategia di trasformazione sembra quindi seguire due percorsi. Il primo, sul quale si concentra gran parte degli sforzi sia di analisi che di advocacy riguarda l’integrità del processo al fine di evitare fenomeni di opportunismo e ammorbidimento nell’adozione dei criteri ambientali, sociali e di governance. Un aspetto certamente rilevante ma che mostra alcuni limiti. I fenomeni di green e social washing, infatti, derivano anche dalla deriva integralista rispetto all’autenticità della trasformazione che porta a isolare piccoli gruppi di organizzazioni e scarsi ammontare di risorse che non sono in grado di generare alcun cambio di paradigma abilitando invece all’opposto, seppure involontariamente, forme di opportunismo da parte di attori che vengono di fatto esclusi dal percorso. Il ruolo di politiche pubbliche non solo sanzionatorie ma soprattutto promozionali potrebbe risultare decisivo. Ma fin qui il ruolo delle istituzioni, europee soprattutto, nel disegnare policy mission-oriented è spostato molto sul versante ambientale e per di più compensativo delle esternalità negative, mentre è poco sviluppato su quello sociale, seppure appaia evidente che non sarà possibile alcuna transizione green senza giustizia sociale.
La seconda strategia riguarda invece la necessità di generare un “effetto gregge” rispetto al sistema economico – imprenditoriale nel suo complesso. Ad oggi sono le imprese di grandi dimensioni e la finanza ad esse commisurata a trascinare il percorso di definizione e di implementazione dei criteri ESG. Ma sappiamo bene che per quanto rilevante questa è solo una parte del sistema capitalistico, soprattutto in un paese come l’Italia popolato per la quasi totalità da piccole e medie imprese. Per queste ultime – in realtà non solo per queste posto che ad oggi secondo un recente rapporto solo il 49% delle imprese quotate in Borsa italiana è ESG compliant – si pone un tema di approccio e di capacità di assorbimento di questi standard. Non si tratta naturalmente di un mero adeguamento ma di un’occasione di trasformazione e di crescita, considerando che molte PMI prosperano su asset ambientali e sociali che definiscono “eccellenze territoriali”. Ma non solo, si pensi anche alla rilevanza dei criteri di governance per soggetti che a volte soddisfano solo in parte i criteri base di regolazione, ma che difettano anche di capacità strategiche nel dare il giusto peso al supporto di stakeholder chiave per il loro successo (dai lavoratori al sistema formativo; dalla ricerca al terzo settore) e per affrontare passaggi problematici. A tal proposito basti pensare a come la partecipazione dei lavoratori che caratterizza il modello del capitalismo tedesco abbia consentito di mettere in atto in maniera tempestiva e flessibile ammortizzatori sociali come parte della governance d’impresa e non solo dell’intervento statale.
In sintesi oltre al fin troppo conclamato rischio di green e social washing ne esiste un altro, invece molto sottovalutato, che gli ESG, soprattutto se si configureranno non semplicemente come uno standard certificatorio ma come un paradigma di sviluppo, generino crescenti disuguaglianze all’interno dell’economia per effetto di un mismatch di offerta in grande crescita che però non intercetta una domanda coerente. Da una parte imprese (e relativi consumatori e stakeholder) in grado di mettere a regime gli ESG e di beneficiare degli effetti positivi derivanti dai loro impatti sociali e ambientali e dall’altra imprese (e relativi ambienti di riferimento) che invece verranno soverchiate dall’ennesima serie di adempimenti. Una questione cruciale per di più in una fase problematica come quella che stiamo vivendo a causa della pandemia e del suo nuovo scenario e che chiama in causa l’azione trasformativa dell’impact investing. A questo segmento spetta infatti il compito di investire non solo in startup che nascono già in contesti di “next generation” ma soprattutto in PMI messe in crisi dalla pandemia eppure dotate di asset produttivi ma anche di competenze e di reputazione che potranno essere rilanciati soprattutto attraverso il digitale, ovvero il contesto che determinerà lo sviluppo dei prossimi decenni. Sarò su questo fronte in particolare che si misurerà l’autentica “trasformazione” apportata da queste tecnologie e dalle relative culture di progettazione e di utilizzo.
Come agire quindi? Serve probabilmente sia una policy top down che una strategia bottom-up.
Nel primo caso il settore pubblico ma anche gli attori finanziari mainstream che adottano la logica impact potrebbero favorire la transizione, mettendo a disposizione risorse e accompagnamento ma anche sistemi informativi in grado di monitorare e gestire in chiave data driven tale processo perché senza capacità e trasparenza nell’uso delle risorse in chiave trasformativa il rischio è di generare un sistema di rendicontazione che non farebbe altro che perpetuare un pericoloso status quo pur a fronte di risorse davvero straordinarie per invertire la rotta. In Italia si può guardare, ad esempio, alla connotazione sempre più evidente di “impact bank” da parte dei big players Intesa San Paolo e Unicredit o al potenziale impatto di soggetti come Cassa Depositi e Prestiti e fondi pensione se i loro investimenti fossero “pilotati” dai criteri ESG “garantiti” da risparmiatori e tax payer.
Dal basso invece è necessario costruire una nuova coalizione di soggetti che trovino nel “principio territoriale” il loro elemento di aggregazione superando logiche di rappresentanza novecentesca che ancora persistono. In questa logica il carattere “terzo” della società rispetto al potere esercitato dalle “megamacchine” estrattive e burocratiche dello Stato e del mercato non è tanto un settore fatto da una collezione di forme giuridiche e di nicchie settoriali ma piuttosto, come ricorda l’economista Rajan, un pilastro in grado di influenzare la logica dello sviluppo riportando ambiente, socialità e capacità di governo al loro posto: il territorio e le sue comunità.
*Ceo di Plus Value ** Open Innnovation manager di Cgm
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