Tremila detenuti che vivono in carceri senza armi né guardie. Sono i risultati di un innovativo sistema carcerario, sperimentato in Brasile dalle APAC (Associazioni di Protezione e Assistenza ai Condannati).
Da 40 anni si prefiggono l’umanizzazione della pena dei detenuti promuovendo i diritti umani e custodendo le persone in strutture alternative al carcere, nelle quali non ci sono guardie armate e dove la sicurezza è affidata agli stessi detenuti seguiti da supervisori. Centri di recupero gestiti da associazioni con il protagonismo degli stessi condannati e della società civile, in grado di far precipitare il tasso di recidiva dall’85% fino al 10%, di abbassare di due terzi i costi, oltre a garantire ai “recuperandi” condizioni di vita dignitose e un più semplice reinserimento in società.
Un metodo unico, pionieristico, che dal Brasile domani sbarca a Bruxelles come “caso di successo” e nei prossimo giorni sarà al Senato a Roma. Un tour di “coscienza” organizzato anche dalla brava Avsi, l’organizzazione non governativa italiana che lavora in Brasile da 40 anni, così come in altrettanti paesi del mondo, promuovendo la dignità della persona e il suo sviluppo.
Per accedere al programma delle Apac è necessario che il condannato sottoscriva delle regole, dopo di che “è libero”. Da qui in poi è chiamato ad essere protagonista in prima persona del proprio percorso di vita: il motto spiega bene: “Qui entra l’uomo, l’errore resta fuori”.
“Libertà è ciò che rende l’uomo tale e niente può eliminarla, neppure il carcere.” Mi ha detto un giorno Pino uscito dal carcere di Milano-Opera. Il modello delle Apac potrebbe mettere le radici anche in Italia, promuovendo anche un confronto sui temi di efficacia e dignità delle pene. Ma chi raccoglierà il testimone?
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