Famiglia

Senza di loro il ’98 sarebbe stato più brutto

Gli uomini dell'anno indicati da un gruppo di mille volontari ed operatori del Terzo settore

di Cristina Giudici

1. Carlo Marcelletti
Il suo sogno? Non tornare più in Iraq. “Perchè allora sarà arrivata la pace”

Dieci piccoli tappeti, dono personale di Saddam Hussein agli ?amici italiani?. Dieci piccoli tappeti che il dittatore di Baghdad ha consegnato personalmente al professore per i miracoli compiuti nella città strozzata dall?embargo yankee. Tra i pochi al mondo ad essere ammesso con tutti gli onori alla corte del rais, (in uno di quei palazzi presidenziali contro i quali Clinton e Blair hanno scatenato la loro tempesta di missili natalizia), Carlo Marcelletti, 54 anni, due baffi rossi da normanno, il più famoso cardiochirugo italiano, (7 mila interventi in 25 anni nelle sale operatorie di mezzo mondo) non sopporta le facili etichette. Tantomeno quella dello scienziato buono e pacifista in lotta contro i cattivi Stranamore del mondo. E se gli chiedete da che parte sta, ?dottor Cuore? mette subito le mani avanti. Anzi, davanti a tutto il professore mette il suo bisturi. «Faccio il medico e non il pacifista», dice, «e il mio mestiere è salvare vite umane. Non fa differenza se sono americani o iracheni. Vado ovunque c?è bisogno, anche se a chiamarmi è un dittatore». Direttore scientifico dell?Hesperia Hospital di Modena (centro ultramoderno di chirurgia infantile) e presidente di Abc, l?Associazione bambini cardiopatici, a Baghdad, il professore c?è stato due volte, proprio al Saddam Center, l?ospedale colpito dalle bombe intelligenti anglo americane. E ci sarebbe tornato per la terza missione a metà gennaio, se la guerra di Natale non l?avesse costretto a rivedere tutti i piani. Ma al Saddam Center, ?dottor Cuore? ha fatto davvero miracoli. Sessanta interventi che hanno strappato alla morte certa bambini dal cuore compromesso, debilitati dalla malattia e dalla malnutrizione e che entrano in ospedale solo con la certezza di non farcela. ?Portare la speranza?, così il team di Marcelletti battezza i suoi interventi nelle zone dove il diritto alla salute e alla vita è raro quanto il cibo e le sale operatorie. In Iraq, come in Albania o nello Yemen: antibiotici razionati, sterilizzatori rotti, attrezzi chirurgici disinfettati nell?acqua sporca, sale chirurgiche che sembrano obitori. E poi i medici: pochi e scarsamente addestrati. Un sogno per il 1999? Marcelletti non ha dubbi: «Vedere finalmente la fine dell?embargo, la democrazia e una vita dignitosa per il popolo iracheno e infine, portare in Italia qualche collega per addestrarlo a guarire i piccoli cuori malati». Perchè i bambini di Baghdad non abbiano più bisogno di un ?dottor Cuore? venuto da lontano.

2. Carlo Borgomeo
Nell’anno nero per il lavoro ha creato 25 mila posti con la sola forza di un’idea

A Napoli, la sua città, qualcuno lo chiama già il secondo san Gennaro. A lui devono dire grazie in tanti, per aver ricevuto un aiuto a realizzare i propri sogni: crearsi un posto di lavoro. Lui, Carlo Borgomeo, si schermisce, ma se 25 mila nuovi posti di lavoro al Sud non sono un miracolo, poco ci manca. Ovviamente scherziamo. Non troppo, però: Borgomeo, 51 anni, sposato e padre di quattro figli, già direttore di ricerca del Censis (e prima ancora dirigente sindacale in Cisl) è il presidente dell?Ig, la società per l?Imprenditorialità Giovanile creata nel 1994 con un progetto ambizioso: dare ai giovani con buone idee imprenditoriali la possibilità di realizzarle, se residenti in aree depresse del Paese. Ed ecco i risultati: investimenti per 3800 miliardi che hanno riguardato quasi 1400 progetti di nuove imprese gestite da giovani non oltre i 35 anni. A cui va aggiunta un?idea originale venuta proprio a Borgomeo, il prestito d?onore: una misura che ha ottenuto, oltre che il plauso, il riconoscimento dell?Unione Europea e ha finanziato 1800 attività (dopo aver valutato oltre 45 mila progetti), dando la possibiità a 2800 giovani di frequentare un corso di formazione. «Non aspettare un posto, crea il tuo lavoro» è la frase preferita di Borgomeo, a cui spesso (dicono i collaboratori) aggiunge un altro aforisma: «È difficile, ma è possibile». Insomma, bisogna crederci. L?unico modo per andare controcorrente rispetto all?andamento generale dell?occupazione in Italia, per cui il 1998 è stato l?ennesimo anno nero: l?indice di disoccupazione è salito al livello record di 12,6% e l?occupazione nella grande industria è calata dell?1,7% negli ultimi 12 mesi. San Gennaro, salvaci tu.

3. Assaf Mayara
Il soldato che non volle sparare divide Israele ma conquista il mondo

A soli 19 anni Assaf Mayara ha già provato cosa vuol dire essere considerato un eroe e un vigliacco, un simbolo e un cattivo esempio. Ma lui, ?il soldato che non volle sparare? si definisce solo un ragazzo che ha fatto il proprio dovere. Che non è detto sia sempre la cosa più facile.
Lo scorso 2 dicembre Assaf, vestito con la tuta mimetica dell?esercito israeliano, è in macchina con un colono a Ramallah, nei territori occupati, quando un gruppo di studenti dell?università palestinese di Bir Zeit bloccano la strada, li circondano e li prendono a sassate. Il colono riesce a scendere dalla macchina in corsa e se la dà a gambe, Assaf rimane seduto, coprendosi la testa con le mani, finché l?auto si schianta contro un palo. Gli studenti lo raggiungono, lo fanno scendere, lo picchiano. Lui ha in grembo il mitra, ma non lo tocca. Cerca di parare i colpi, si difende, ma non spara. Finché coglie un attimo di distrazione dei suoi aggressori e fugge, inseguito dalle pietre.
Davanti al filmato di una telecamera che riprende la scena, Israele si spacca a metà. Eroe o codardo? Per i generali dell?esercito cui appartiene Assaf deve essere processato, nelle accademie militari il video viene proiettato accompagnato dalla scritta ?non fatelo?. Ma per molti in Israele ma anche in Italia e nel mondo Assaf è diventato il volto della pace. E suo padre Arié, reduce della guerra del Kippur, dice: «Mio figlio ha fatto la cosa giusta. Se avesse sparato, sarebbe stato ucciso a sua volta». E magari vendicato da qualcuno. Invece Assaf ha fermato il suo mitra e, forse, anche l?ennesima guerra.

4. Geri Halliwell
La rossa lascia le Spice e decide di impegnarsi al fianco di chi soffre

Un metro e cinquantasette di carica esplosiva, occhi azzurri e capelli rossi. Abbandonati i succinti abiti di scena, ecco a voi la nuova Geri. Una ragazza ventiseienne dal sorriso dolcissimo che non ha nulla da invidiare alla ex ?sexy spice? di cui conserva la grinta e un ottimismo coinvolgente. L?arma segreta con cui, dopo un esordio non proprio esaltante come ballerina di night club, si è guadagnata un posto di riguardo nello star system e da qualche mese anche nel cuore di chi soffre. Quello dei bambini malati di cancro dell?associazione Sargent, cui la Halliwell ha destinato le 150 mila sterline raccolte vendendo all?asta i suoi abiti da spice, ma anche quelli di Kofi Annan e del principe Carlo. Il numero uno delle Nazioni Unite, convinto che la giovane età e la popolarità di Geri potessero attirare l?attenzione di migliaia di ragazzi su un tema delicato come l?Aids, lo scorso mese di ottobre l?ha incoronata ambasciatrice inglese del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione e subito inviata in missione in Ruanda. Prima tappa di un tour mondiale in cui Geri parlerà ai giovani di sesso sicuro e pianificazione familiare.
A conquistare il futuro re d?Inghilterra è stato invece l?impegno dell?ex spice girl nelle carceri e scuole di mezza Europa per informare sui rischi e le possibilità di prevenire il cancro. Malattia per cui la Halliwell ha rischiato di morire a diciotto anni e che oggi combatte con grinta raccogliendo fondi tra le grandi personalità del Regno Unito. E a chi sostiene che il suo è un ?volontariato di facciata?, lei risponde con i fatti. Mettendo il suo ?girl power? a servizio degli altri.

5. Hocine X
L’uomo senza volto che ha dipinto conun clic la tragedia d’Algeria

«I giornalisti e i fotografi in Algeria creano una frontiera immaginaria, da una parte loro, dall?altra i soggetti. Non son mai dalla stessa parte. Invece bisogna capire che quello che fotografiamo è una parte di noi stessi». Il credo professionale di Hocine X è tutto in queste parole. Hocine vive in un paese che non ha più un volto: l?Algeria. Sfigurato dai centomila morti della guerra civile. Ma anche paralizzato dalla paura. Nessun personaggio ufficiale si mostra in pubblico, né appare sui giornali per paura di diventare un obiettivo di una parte o dell?altra. Si sa che ha 39 anni, che ha insegnato per qualche anno, sino a 1991, alla scuola delle Belle Arti di Algeri. Poi, con lo scoppio della guerra, ha preferito uscire dal mondo protetto dell?insegnamento. Dicono che sia l?unico fotografo che in Algeria giri con le macchine appese al collo («Da noi la macchina fotografica è considerata più pericolosa di un kalashnikov», racconta). Gli altri, per prudenza, le tengono nelle borse: così il dramma algerino è l?avvenimento meno coperto dai media. Le televisioni sono all?asciutto. Ma, a volte, un?immagine basta a raccontare la portata della tragedia di un popolo. È quello che è accaduto con la foto che Hocine ha scattato martedì 23 settembre 1997, all?indomani del massacro di Benthala. «Io mi rifiuto di fotografare i morti», spiega Hocine. «Così mi recai all?ospedale di El Harrach, alle porte di Algeri. Lì c?erano i parenti delle vittime». E lì Hocine, appoggiata a un muro, trovò il volto della donna che aveva perso i suoi figli e che sarebbe diventata di lì a poche ore, per tutto il mondo, la Madonna di Algeri. Con quella foto Hocine, che lavora per l?agenzia France Press, ha vinto il World Press Photo 1998. Lo hanno celebrato con una grande mostra a Parigi. Ma la sua vita non è cambiata. Lui, il fotografo senza cognome, continua ad aggirarsi per le strade della sua Algeri e a sfidare la folla e la violenza, armato solo di un clic.

6. Don Albino Bizzotto
Bosnia o Kosovo, sempre in prima linea. Per portare pace anche sotto le bombe

«Se saremo in tanti, fermeremo la guerra». Ecco il motto con cui don Albino Bizzotto combatte le sue battaglie. E con cui nel 1992 ha convinto 500 persone a sfidare con lui l?assedio di Sarajevo per testimoniare l?importanza dei diritti umani nella città in guerra. Persone stufe di sedere impotenti davanti al telegiornale. Normali cittadini che apprezzano don Bizzotto soprattutto per un motivo: aver rotto il tabù della guerra come territorio di governi, diplomazie e soldati e aver dimostrato coi fatti che il volontariato può andare oltre le campagne di solidarietà. Proprio come ha fatto questo vicentino 59enne che non va tanto per il sottile. Quel che pensa dice. E quando crede in un progetto lo realizza. Lo dimostra ad esempio la fondazione Beati i Costruttori di Pace nata 13 anni fa. Ma anche ?Mir Sada?, il progetto del 1993 che intendeva fermare la guerra bosniaca portando 2000 volontari nei territori occupati. «La guerra si combatte sconfiggendo la violenza», dice don Albino, «e l?impegno di ogni organizzazione, di ogni cittadino, può essere determinante per salvare vite umane». Ma soprattutto l?ultima ?impresa? di Don Albino. La marcia di 300 volontari che al grido di ?I Care? (Mi interessa), il 10 dicembre ha raggiunto Pristina per celebrarvi il 50° anniversario dei diritti umani. Per ricordare, mentre l?Unione Europea continua a promettere soluzioni politiche del conflitto e l?Onu osserva inerme i bombardamenti sull?Iraq, che in Kosovo si continua a morire. E che la società civile, almeno lei, ci pensa.

7. Andrea Ballabio
Per il genetista di Telethon l’ultima sfida è sconfiggere le malattie ereditarie

Andrea Ballabio è un uomo a cui piace scommettere. Come tutti i ricercatori che si occupano di genetica umana, è con la storia che sta giocando la scommessa più importante: completare entro pochissimi anni (forse ne basteranno 3 o 4) l?identificazione dei geni responsabili delle patologie ereditarie, per riuscire poi a trovare una terapia in grado di batterle per sempre. Ma oltre a questa sfida, che condivide con altri scienziati di tutto il mondo, Andrea Ballabio ne ha affrontata e vinta un?altra, soltanto quattro anni fa. E, non contento, ha in mente un?altra ?missione impossibile? per l?anno appena iniziato.
La scommessa del 1994 fu quella di abbandonare il suo laboratorio di Houston (Texas), dove c?è la Silicon Valley della ricerca genetica mondiale, per venire a fare ricerca in Italia, terra, com?è noto in tutto il mondo, dalla quale gli scienziati che ambiscono a qualcosa in più dello stipendio e della cattedra statale, fuggono appena possono a gambe levate. Lui no, Andrea Ballabio è tornato in Italia per dirigere il laboratorio Telethon di genetica e medicina (Tigem), all?interno dell?ospedale San Raffaele di Milano. Insieme a quelli di Telethon, Ballabio è riuscito a creare un centro all?avanguardia nella genetica, che produce scoperte di altissimo livello a ritmo serrato. E soprattutto è riuscito a dimostrare che anche da noi si può fare ricerca sul serio. A patto che la cosa non venga gestita dallo Stato, ma direttamente dagli italiani, attraverso le donazioni raccolte nella maratona televisiva di fine anno. E proprio durante l?ultima maratona, in diretta dagli studi Rai, Andrea Ballabio ha giocato, spalleggiato dalla presidente di Telethon, Susanna Agnelli, la sua ultima scommessa: portare la ricerca di livello nel Sud Italia. Precisamente a Napoli, la città che quarantuno anni fa gli diede i natali.
Il ?guanto? della sfida è stato lanciato, di fronte a milioni di telespettatori. Il primo a raccoglierlo è stato il sindaco di Napoli e ministro del Lavoro, Antonio Bassolino. Ma la partita più difficile Ballabio la giocherà ?in casa?, con la commissione scientifica internazionale di Telethon che due volte l?anno valuta (con criteri esclusivamente meritocratici) i progetti da finanziare. Solo se il ?Progetto Napoli? sarà reputato valido e produttivo, il capoluogo partenopeo avrà il suo centro di genetica. E Ballabio avrà vinto un?altra scommessa.

8. Don Oreste Benzi
Il prete meno fotogenico d’Italia che preferisce la strada agli studi Tv

Il suo 1998 l?ha passato sui marciapiedi, come anche il 1997, il 1996… Don Oreste Benzi ha scelto di essere un prete di strada sul serio, aggirandosi con la sua tonaca lisa sul lungomare della Riviera adriatica ad incontrare le nuove schiave, le prostitute straniere. Ne ha salvate più di mille, don Oreste, dando loro un lavoro e un posto dove ricominciare. Ma le ragazze bussano alla sua porta ogni giorno, portate molte volte dai loro stessi clienti. Don Benzi è famoso soprattutto per questo, ma chi lo conosce bene sa che la comunità da lui fondata, la Papa Giovanni XXIII, è molto di più. In effetti, è una vera centrale dell?accoglienza senza confini, che oggi conta 165 case famiglia in tutto il mondo (dall?Africa all?India, dalla Russia al Brasile), 27 comunità per tossicodipendenti, 15 cooperative sociali per l?inserimento lavorativo dei disabili, 500 famiglie che hanno preso in affidamento un bambino. In complesso, calcolano i volontari che lavorano con lui, sono 4000 persone che dopo aver incontrato don Benzi hanno in qualche modo cambiato la loro vita, e continuano a seguirlo. Lui, da parte sua, è sicuramente il meno televisivo e il più ?scomodo? dei nostri preti-coraggio. Probabilmente perché gli piace parlare chiaro, anche ai suoi confratelli. Non è un presenzialista, non gli piace la telecamera, non è fotogenico ma non gli interessa un granché. E forse è meglio così.

9. Vinicio Russo
Da luglio a dicembre ha accolto 200 immigrati al giorno. Come nel 1997…

I primi 46 albanesi sbarcati a Otranto nel 1997 non sapevano dove andare. La polizia li aveva fermati, ma nessuno aveva idea di dove ricoverarli. C?erano anche dei bambini. Che fare di loro? In poche ore, Vinicio Russo attrezzò la sede della sua organizzazione, Ctm-Movimondo, per accoglierli. Due stanze, parecchi letti e alcuni volontari che prestarono le prime cure agli immigrati fuggiti dalla crisi che insanguinava il Paese delle aquile.
Da allora è passato poco più di un anno, e oggi il centro di permanenza ?Lorizzonte?, emanazione diretta di Ctm-Movimondo, e gestito direttamente da Vinicio, scoppia di 250 immigrati fuggiti dal Kosovo. Ne potrebbe contenere a malapena 200 (e tanti ne ha ospitati ogni giorno da luglio a dicembre), ancora una goccia nel mare dell?emergenza degli sbarchi a ciclo continuo, che nelle ultime settimane si è fatta ancora più acuta. Ma se Lorizzonte non ci fosse, e se non ci fossero tutti gli altri centri messi in piedi dai volontari in Puglia… Vinicio Russo – un carattere ?forte e ostinato?, dice chi lo conosce bene – è forse l?esempio più noto di un volontariato, quello pugliese, che anche tra il nostro ?campione? di intervistati ha ricevuto molte segnalazioni. Laureato in lettere ma specializzato alla Bocconi in direzione di servizi socio-sanitari nel non profit, ha appena compiuto 40 anni, è sposato e ha tre figli. Viene dalla Caritas, dove è stato per anni animatore del settore Terzo mondo, e conosce bene la maggior parte dei Paesi di provenienza degli immigrati con cui oggi condivide le giornate. Il suo principale nemico, assicura, sono i ?giri di parole?. Non sopporta i politici che promettono e non mantengono. E di una cosa è assolutamente certo: la solidarietà non è un?utopia. La costa salentina, se potesse parlare, sarebbe d?accordo con lui.

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