Welfare

Sempre rialzo alla Borsa degli schiavi

Secondo le stime dell'Onu ormai il traffico di uomini produce un fatturato di 14mila miliardi. E coinvolge ben 4 milioni di persone all'anno.

di Federico Cella

Kofi Annan, precorrendo i tempi ma in realtà dando seguito alle prime stime ufficiali di un potente traffico illegale, si espresse in questi termini durante la Giornata internazionale per l’Abolizione della schiavitù: «Siamo alle soglie del nuovo millennio, ma non dobbiamo congratularci per questo: nel mondo ritroviamo vecchie e nuove forme di schiavitù. Centinaia di milioni di persone ancora al giorno d’oggi vivono e muoiono come schiavi». Il Segretario generale delle Nazioni Unite si riferiva a quella che è ormai diventata, dopo la droga e le armi, la terza fonte di guadagno del cosiddetto “Male pubblico globale”, la rete mondiale delle mafie, ossia il traffico degli esseri umani come migranti illegali, schiavi o lavoratori forzati. Un traffico che assume varie forme a seconda dei soggetti e delle aree di provenienza (vedi scheda a lato), e che, secondo le uniche stime disponibili – provenienti dall’Onu – coinvolgerebbe almeno quattro milioni di persone trafficate l’anno, per un business totale annuo di circa 14 mila miliardi di lire. Figli della globalizzazione Nuove forme di schiavitù, dunque, in Paesi lontani oppure proprio sotto casa nostra – è il caso della quasi totalità delle prostitute extracomunitarie presenti in Italia -, frutto delle perverse dinamiche economiche prodotte dalla globalizzazione, che poco o nulla hanno a che vedere con le vecchie navi dei negrieri provenienti dall’Africa. «Mentre la vecchia schiavitù implicava condizioni di lavoro drammatiche, ma anche una forma di accettazione popolare e una sorta di protezione del padrone per i propri schiavi, il fenomeno cui ci troviamo di fronte in questi anni ha un carattere esclusivamente illecito, di invasione totale dei diritti umani della persona, inaccettabile e inaccettato da tutti i governi. Che ha il solo fine del guadagno criminale, trattando in schiavi non solo per scopi lavorativi in senso stretto: ci troviamo di fronte ai bambini-soldato, ai piccoli schiavi del sesso, alle adozioni false, alla prostituzione forzata». Chi parla è Sandro Calvani, direttore dell’Undcp, l’agenzia Onu per la prevenzione del crimine, che ha appena terminato di scrivere un libro – “Anche gli schiavi parlano” – che tratta delle diverse forme in cui nel mondo, a seguito soprattutto dello sviluppo dei fenomeni migratori, si traffica in esseri umani. Quello che Calvani non esita a definire il vero business criminale del futuro. «Non è una mia opinione personale, ma il frutto di indicatori che emergono dalle diverse parti del pianeta», conferma il direttore Onu. «Prima di tutto perché si ha una forte pressione da parte di un mondo impaurito e disperato, che ha perso ogni speranza – per mancanza di cibo, per le malattie, per le guerre -, che crea una forte domanda, domanda di per sé lecita. I crimini, dunque, intervengono su questa domanda, e, secondo punto, avvengono nei Paesi poveri, dove dunque si ha una legislazione più debole, ma anche una maggiore impunità garantita dal denaro. Quello che io definisco il “Prodotto criminale lordo” sta investendo sempre più in questo traffico, anche perché è meno rischioso di quello degli stupefacenti, dato che il compratore cambia ogni volta, ed è immediatamente redditizio: basti pensare agli scafisti che si fanno pagare per portare le persone in Italia; che poi le persone arrivino oppure no, il guadagno comunque è già stato fatto». Bambini acquistati in blocco Traffici vicini e lontani, dicevamo, che portano con sé storie di orrori che forse non possiamo neanche immaginare. Bambini acquistati in blocco da piccoli villaggi, sfregiati appositamente per chiedere l’elemosina nelle grandi città con maggiore efficacia; donne africane scambiate come merce e quindi costrette a prostituirsi e inviate come macchine per fare soldi nei Paesi occidentali. Non esistono cifre ufficiali di questo mercato estremo e schifoso, e mentre il fenomeno assume sempre maggiore rilevanza, le Nazioni Unite stanno studiando un piano internazionale che dovrebbe essere varato nell’aprile 2000. Ma intanto l’estrema povertà si diffonde sempre più, e anche le guerre e gli abusi, mentre le frontiere diventano più strette, e così si creano sempre nuovi fenomeni migratori su cui le mafie possono mettere mano. Anche nel nostro Paese, di frontiera per molti migranti, le dinamiche del nuovo schiavismo sono d’attualità, non solo per l’emergenza irrisolta degli sbarchi clandestini: a febbraio del ‘98 è stato infatti costituito un gruppo interministeriale “Contro il traffico di donne e minori per fini di sfruttamento sessuale”, un impegno congiunto che è stato ratificato, nell’aprile successivo, anche in concordanza con il governo degli Usa. E proprio in questi giorni di discussione su criminalità e sicurezza nel nostro Paese, è intervenuto da Bruxelles Pino Arlacchi, direttore del programma Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, proprio per sottolineare in sede istituzionale la pericolosa invasività di questo traffico, «in grado di prosperare proprio perché richiama sempre più organizzazioni criminali al suo interno, attratte non solo dai guadagni, ma anche dall’impunità garantita da pene irrisorie e dalla quasi completa mancanza di una rete internazionale che ne ostacoli lo sviluppo», sostiene Arlacchi. Un’inquietante ammissione di impotenza di fronte al nuovo schiavismo che riguarda a più livelli anche il nostro Paese, sede di lavoro forzato per non meno di 50 mila schiave del sesso. La parabola di Rimini I dati e i percorsi ci sono forniti dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, da anni impegnata nel recupero e nell’accoglienza in comunità di prostitute, sottratte al racket malavitoso (un telefono, lo 0335/8128724, è attivo in tal senso 24 ore su 24, per tutta Italia). «La nostra esperienza, fortunatamente ripresa da altre città al Nord, e il nostro lavoro in collaborazione con la Questura, a Rimini ha permesso nel giro di un anno e mezzo di eliminare completamente la prostituzione sulla strada, liberando di fatto le ragazze», a parlare è don Oreste Benzi, fondatore dell’associazione. «Due settimane fa, quindi, mi sono recato dal ministro Jervolino, proprio per parlare del fenomeno dell’immigrazione forzata in Italia. Siamo stati d’accordo su tutto, tranne quando le ho chiesto cosa impediva al governo di varare un piano nazionale antiprostituzione che ricalcasse la nostra felice esperienza di Rimini. Non ho ottenuto risposta». Una richiesta forte, da estendere a tutti i governi del mondo. Soprattutto, come ci ricorda don Benzi, in occasione del Giubileo. Quando il primo compito, per tutti, è proprio quello di liberare gli schiavi. Niente stufette elettriche, malgrado i meno 5, l’allaccio Enel bloccato, l’acqua potabile tagliata, servizi igienici inesistenti, schedature di minorenni. Meno di 400 persone cui anche le Autorità statali hanno voluto negare dapprima lo status di rifugiato politico, e poi neppure un meno impegnativo permesso di soggiorno temporaneo “per ragioni umanitarie”. È meticoloso Revelli nel suo racconto perché sa quanto è importante che almeno nella cronaca postuma si restituisca dignità di realtà alla vita di queste persone con cui ha condiviso un pugno di notti e una faticosa battaglia. Ogni capitolo ha per esergo un articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani scritta nel 1948, e queste citazioni sono volutamente l’unica astrazione contenuta nel libro. Revelli sa che le vite dei 386 rom sono qualcosa cui non si vuole guardare, tuttalpiù vengono prese in considerazione come “grana” momentanea, come “caso limite e marginale”. Eppure non è così, quelle 386 vite appartengono al grande e immenso fiume fatto di milioni di disperati che ci sfida e che noi non vogliamo guardare. Provocatoriamente, in chiusura di libro, Revelli evoca questo fiume e si chiede quanti dei politicamente corretti di sinistra, quanti dei retori dell’umanitarismo democratico si ricordino «anche solo il nome della motovedetta albanese colata a picco il venerdì santo di due anni fa con il suo carico di “generiche vite umane”. Si chiamava Kater I Rades, vi morirono almeno 88 persone, in maggioranza donne e bambini», e continua, «E della tragedia del Natale 1996, quanti di questa sinistra un tempo così sensibile anche semplicemente “sanno”? Quella notte, al largo di Capo Passero, nel canale di Sicilia, un cargo fece naufragio. Non aveva neppure un nome, solo una sigla – F174 – e trasportava alcune centinaia di cingalesi, indiani, pakistani in cerca di una terra promessa mai raggiunta. 289 morirono, naufraghi senza volto, senza età, senza storia, tanto da non fare neppure notizia». E qui siamo già alle morali che Marco Revelli tira dalla “cronaca da un campo Rom”. Morale che Revelli, uomo di sinistra, sbatte in faccia alla retorica umanitaria di sinistra, alla magistratura minorile torinese rigorosamente democratica, antifascista e antirazzista, ad uno stuolo di amministratori profeti della legalità, sociologhe progressiste il cui sguardo è «impersonale, distaccato, pragmatico fino al cinismo, disincantato, e talvolta peggiore: più freddo di altri». Sino alla questione capitale, a quella che Revelli chiama “Apocalisse culturale”, la riduzione «di ogni rapporto con l’altro a una questione contabile di utile e d’interesse, una aritmetica della meschinità capace di ridurre tutto a una questione amministrativa».


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