Non profit

Sempre più giù. E ora?

Una riflessione alle radici della crisi. In anteprima l'editoriale di Vita magazine.

di Riccardo Bonacina

Una crisi simile a quella del 1929, crisi tanto evocata in queste settimane, è quindi arrivata. E non piangeranno solo i ricchi, la recessione renderà tutti un po’ più poveri. Tanto per dare un’idea, la crisi del 1929 provocò, anche nella periferica Italia, indici di disoccupazione da paura e un calo degli stipendi di circa il 50%. All’epoca, il presidente americano Roosevelt si chiedeva come poteva succedere tutto ciò ad una nazione che aveva più grano, granturco, carbone, petrolio di tutti gli altri Paesi. La sua risposta fu: «L’avidità». Quelli che dovevano essere i leader, disse, «si sono riempiti solo le loro tasche». È, più o meno, quello che è successo in questi anni nel mondo finanziario. I Ceo e i manager del settore banking and finance, con la complicità degli istituti di credito, delle società di rating e delle autorità monetarie, hanno inventato di tutto per sollevare i loro affari e la loro sete di profitto da ogni possibile governo e controllo. Inventandosi persino un nuovo criterio nella compilazione dei bilanci, il “fair value”, metodo per contabilizzare gli investimenti finanziari, con valori (sulla carta), all’attivo e al patrimonio, così da sostenere la spirale delle attività finanziarie. Ora, gli economisti ci spiegano che i mutui subprime e, vale a dire le fasce più rischiose dei prestiti immobiliari, ammontano, rispettivamente, a circa 1.850 miliardi di dollari. Di questi, mille miliardi sono stati cartolarizzati, vale a dire inclusi in titoli finanziari, e il loro tasso di default è intorno al 50%. E il Fondo monetario internazionale scrive che sui mercati è in atto un «terremoto che costerà 1.400 miliardi di dollari» e dice che alla fine di settembre le svalutazioni hanno raggiunto quota 760 miliardi di dollari, di cui 580 miliardi a carico di banche. Sempre secondo l’Fmi, finora è emerso soltanto il 55% delle perdite potenziali conosciute. Sempre meno convincenti anche le rassicurazioni sull’area euro e sull’Italia, se pensiamo che i 700 miliardi di dollari messi in campo dal governo Usa per il salvataggio del sistema finanziario americano rappresentano “solo” il 7% del Pil Usa, mentre le maggiori banche europee sono ormai troppo grandi per essere, nel caso, salvate. Le passività della Deutsche Bank ammontano a circa duemila miliardi di euro, pari a oltre l’80% del Pil tedesco, le passività della Barclays ammontano a circa 1.300 miliardi di sterline, una cifra superiore al Pil britannico. Insomma, i regolatori europei sono seduti su una bomba a orologeria, potranno continuare ad accontentarsi di blande “road map”?
Oltre le misure tampone che si prenderanno per difendere i risparmiatori, bisognerà cominciare a discutere su due temi dirimenti.

Il primo. Una nuova regolazione dei mercati, a livello globale e a livello locale; un nuovo quadro di garanzie e di controlli chiede un di più di politica, chiede una politica e una governance non più in una posizione ancellare rispetto alla finanza. Sarà in grado la politica di rggere questa sfida e rigenerare la propria cultura?

Il secondo. La globalizzazione e l’interdipendenza senza regole hanno prodotto disastri, non c’è dubbio è l’ora della rivincita degli Stati chiamati a ricomporre i cocci dell’ubriacatura del mercato-mercato. Ma che Stato sarà in grado di farlo se non ripensa alle stesse sue forme e al patto che lo legittima?

Ne vogliamo parlare?


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