Semmai la storia insegnasse qualcosa…

di Carlo Maria Zorzi

Furono sei mesi veramente complicati, una buona dose di rischio, e una “escalation” proprio a marzo e aprile. Tre anni fa, la Costa d’Avorio viveva tragicamente l’epilogo della sua crisi post elettorale, cominciata col ballottaggio alle elezioni presidenziali del novembre 2010 e terminata nell’aprile 2011. E’ dovere di memoria ricordare i 3000 morti, coloro –e furono migliaia- che subirono violenze e distruzione, chi perse i proprii beni durante le scorribande dei giorni più bui e chi visse in uno stato di tensione e di isolamento rischiando anche la pelle. In tutti quei mesi la Costa d’Avorio ebbe due cose di tutto ; due presidenti della repubblica, due primi ministri, due governi, due eserciti, due direttori generali in ogni ministero e istituzione pubblica…e tutto quello che faceva uno di questi lo disfaceva l’altro, con grande apprensione dei cittadini, degli imprenditori, delle società che non sapevano più a chi pagare, a chi credere, a chi rivolgersi, a quali leggi fare riferimento, quali abrogate e quali rimesse in vigore. Il caos fu totale. Venne il tempo della chiusura di tutte le banche e degli uffici che permettevano il regolare andirivieni di denaro dentro e fuori il Paese. Tornammo al contante, gli assegni erano carta straccia, i lettori delle carte di credito fuori uso e i bancomat ovviamente vuoti. Ma anche il contante finí presto, e così nessuno pagava più nessuno ; negozi e imprese chiusero, i supermercati si svuotarono di merce, gli uffici di clienti e pure il borsellino della raccolta durante la Messa. Fu il tempo dei licenziamenti, di famiglie sul lastrico e altre diventarono ancora più povere di quanto già non lo fossero prima. La nostra vita divenne ancora più difficile col razionamento del carburante, l’economia di luce, acqua e telefono nell’incertezza di non poter pagare le bollette; poco cibo e scarsità di medicine a prezzo triplicato.

In quei giorni l’Italia festeggiava i 150 anni della sua nobile Unità. Asserragliato in casa, dall’internet del giorno dopo, vidi Torino e Roma bellissime, ascoltavo l’inno di Mameli di Benigni a Sanremo e mi inorgoglivo di tanta partecipazione di popolo. Nella notte i fuochi d’artificio avevano illuminato i cieli italiani di mille colori. Ritornai presto alla realtà ; anche la notte d’Abidjan aveva avuto i suoi fuochi e i suoi boati sordi dei mortai e dei cannoni seguiti dal crepitio delle armi leggere. Venivano da due, al massimo tre chilometri di distanza in linea d’aria. La stanchezza fisica e psicologica non mi aveva impedito di restare seduto sul muretto di casa ad ascoltarli : chiusi gli occhi, sentivo solo i colpi, quello che vedevo era frutto dell’esperienza, non la prima di momenti così tragici ; i colori e i suoni della morte, delle ferite, della distruzione, della fuga con i pochi fardelli sulla testa per andare lontano da tanta disperazione. Raggiunsi per telefono la mia famiglia che avevo fatto partire su Dakar mesi prima, convinto – a ragione- che la tornata elettorale novembrina non avrebbe portato nulla di buono. Raccontai a mio figlio dodicenne, quello che internet mi aveva detto e mostrato della festa dell’Italia : a mia grande sorpresa mi rispose che non era il 2 giugno ! Gli spiegai l’eccezionalità dell’avvenimento e giusto quel pezzo di storia che vale la pena di festeggiare con i fuochi d’artificio ; appunto, l’Unità. Per contro, la storia dei fuochi delle armi della notte di Abidjan, quella, al telefono, non volli raccontargliela.

La guerra urbana provocò almeno un milione di sfollati nella sola capitale e il dramma fu subito sotto gli occhi di tutti nei suoi aspetti più diversi. Le stazioni dei pullman a destinazione dei villaggi di campagna dove la situazione era più calma, furono presi d’assalto e per partire c’è chi attese anche tre giorni. Il prezzo dei biglietti fu moltiplicato per tre. Chi aveva qualche spicciolo in più lo diede a chi non arrivava a pagare il biglietto completo. E’ sempre bello poter incontrare delle persone buone e mettersi in tasca un biglietto per salvare la pelle. Altri profughi ; quelli rimasti in capitale. In migliaia l’attraversarono per andare in altri quartieri da qualche parente o amico, che vedeva vertiginosamente aumentare gli ospiti nella sua abitazione già piccola e ridursi le misere riserve di cibo. Ma nessuno disse di no. Qualche campo di sfollati nacque qua e là nella capitale per chi non sapeva dove andare e da chi andare. E’ terribile raccogliere le proprie cose, metterle in un sacco e chiudere dietro di sè la porta di casa. E’ lacerante scegliere tra l’essenziale e tutto il resto che però non puoi portarti appresso, sapendo che se ritornerai potresti non trovarlo più. C’è un dramma che si consuma nel rifugiato e nello sfollato ; c’è la ferita dello strappo dalla realtà con le cose che hai costruito con tanta fatica, e la proiezione verso il nulla. Ovunque tu vada, per bene che starai, per la calda accoglienza che ti sarà riservata, non sarà mai come a casa tua. Il rifugiato e lo sfollato non hanno più un posto che gli appartenga e che sia loro, ma soprattutto non hanno più un posto per « essere » quello che sono in dignità e umanità. E questo, tristemente, nessuno può darglielo. In quei giorni, andammo nei crocicchi delle strade affollate di gente in movimento, nelle famiglie di accoglienza; agli sfollati abbiamo dato cibo, coperte, stuoie, beni di prima necessità ma mai il loro « chez soi », la casa, il loro « essere ». E questo vuoto resterà per sempre marcato nella loro mente e nella loro esperienza umana. Specialmente quella dei bambini.

Vissi i giorni del coprifuoco chiuso in casa, con un collega nazionale che dopo aver mandato lontano moglie e figlio, dovette piegarsi alla dura legge della guerra e abbandonare la sua abitazione al crocicchio di troppi fuochi. Dividemmo uno spazio grande (la mia casa), vuoto a sua volta, da chi (la mia famiglia) aveva dovuto rinunciarvi per le stesse ragioni. In quei momenti difficili pensavo se sarebbe toccata anche a me la stessa sorte, un giorno o l’altro di quella lunga storia.

Ebbene si. Quando mi resi conto che la situazione era sfuggita al controllo di chicchessia e il pericolo troppo grande, chiesi protezione alle Nazioni Unite, recandomi alla loro base militare più vicina e facendo attenzione alle pallottole vaganti. Consegnai il mio passaporto al militare di guardia, dichiarai la mia nazionalità e chiesi protezione. Che mi fu accordata tre ore dopo, insieme ad una bottiglia d’acqua; nel frattempo era iniziato il coprifuoco e a casa non mi ci avrebbero più mandato. Non assomigliava neppure a un hotel di mezza stella; un prefabbricato, un lettino nell’angolo, un cuscino e una coperta dell’esercito del Ghana. Avevo diritto alla toilette degli ufficiali e vi assicuro che fu un grande privilegio, difficile da scordare in una tale situazione! Tra tante cose feci l’esperienza della « babele delle lingue ». Nel campo stazionavano almeno sette contingenti : militari giordaniani, pakistani, bengalesi, senegalesi, togolesi, ghanesi e nigeriani del Niger. Se è vero che ci sono delle lingue veicolari, non è per forza vero che tutti le sappiano parlare, e soprattutto i militari di più basso grado e da prima linea. Tutti questi paesi hanno le loro lingue nazionali e una quantità straripante di dialetti, a tal punto che sovente neppure la lingua nazionale ufficiale e veicolare è conosciuta da tutti. Basta non essere andati a scuola. E ancora; bisogna che in quella scuola l’abbiano insegnata. Anni fa incontrai tribù nell’Africa dell’Est, che dai loro villaggi distanti neppure 15 km uno dall’altro, non ce la facevano a dialogare e a capirsi, senza neppure potersi aggrappare alla lingua nazionale veicolare perchè in quelle zone, il maestro che la doveva insegnare, non era mai arrivato. La Costa d’Avorio non fa eccezione, con tante donne e uomini che hanno avuto poche (o nessuna) opportunità di andare a scuola, che parlano il dialetto della loro etnia e non riescono a comunicare con altre etnie, se non tramite un interprete. Ci si salva con i gesti : il soldato bengalese si toccava il ventre ; aveva fame e non c’era più riso in circolazione. Aveva ragione, 18 ore di coprifuoco al giorno lasciavano poco spazio agli acquisti in magazzini per lo più vuoti o chiusi. Anch’io mi toccai il ventre davanti a lui. Lui capì che avevo lo stesso problema e tra noi calò svelto il silenzio dei gesti. Forse fui uno dei suoi pochi interlocutori in quel triste giorno. Fu molto più autoritario e drastico, invece, il gesto dell’ufficiale ghanese quando mi indicò la porta del rifugio in cui mi sarei nascosto per le due ore a seguire. L’assalto finale al vicino campo militare ivoriano era cominciato, al suono dei bombardamenti degli elicotteri da guerra delle Nazioni Unite e dell’esercito francese. Per 45 minuti tremò tutto. Nel cielo oscurato da nubi che annunciavano un temporale, i missili tracciavano solchi luminosi e incandescenti. I sibili, i boati, gli scoppi, le detonazioni, facevano vibrare pavimento e cervello, finestre, ventre e gambe. Facevo su e giù nello spazio di qualche pianella, inventavo preghiere, pensavo a mia moglie e mio figlio, guardavo l’orologio ogni mezzo secondo sperando che fosse passata un’ora e quel calvario fosse arrivato alla fine. Terminò. Qualche giorno dopo salii su un elicottero francese venuto a recuperare gli stranieri rimasti in quella zona e radunati in un campo da calcio di una scuola ; andai a passare una notte nel loro accampameno che accolse oltre tremila persone nel periodo della crisi, e poi, con un C130 de                « l’armée de l’air » a temperatura vicino allo zero durante il volo, andai a Dakar per riabbracciare i miei cari e partire insieme per qualche giorno di riposo in Italia. Fui ricoverato in ospedale con una malaria piuttosto devastante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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