Cultura

Segni dei tempi. Razzismo, discriminazioni, disuguaglianze, deindustrilizzazione

La discriminazione (di razza, di religione, di appartenenza sociale) ci appare lontanissima e insignificante durante la vita perché riconosciamo, in tempo di pace, come sia tanto assurda quanto arbitraria. Ma quando la discriminazione ci colpisce direttamente - come è capitato mille volte a chi scrive - sentiamo che si tratta di un abominio, una malattia della mente e del cuore che crea differenza e distanza dove dovrebbero regnare comprensione e vicinanza

di Pietro Piro

La discriminazione non esiste finché non ti colpisce direttamente

Nel 1997 quando mi recai per la prima volta ad Urbino per studiare psicologia all'Università, mi dedicai all'affannosa ricerca di "un posto letto"non potendo accedere a una borsa di studio che garantisse anche l'alloggio. Fu allora che vidi per la prima volta nella mia vita dei cartelli con su scritto: "non si affitta a meridionali". Fu davanti a quei cartelli che ho scoperto di appartenere a un genere: "il meridionale" a cui non avevo mai pensato neanche per un attimo di appartenere fino a quel momento.

Fortunatamente, riuscì a trovare un posto letto insieme ad altri nove coinquilini e la mia esperienza di studente si realizzò in un clima di fraterna condivisione. Tuttavia, qualche anno dopo, in seguito allo smarrimento della carta d'identità, scopri presso il mio nuovo comune di residenza di essere un "immigrato". Raggiunsi pero, il culmine dello spaesamento, solo quando mi trasferì a Madrid per svolgere il dottorato di ricerca. Nelle strade di quella città brulicante di vita ho sperimentato contemporaneamente l'esperienza di essere straniero, senza casa, senza amicizie e i cui titoli accademici dovevano essere "riconosciuti" perché non validi. Ricordo le lunghe file nei corridoi dei ministeri in compagnia di medici cileni e avvocati argentini che attendevano impazienti che il loro titolo di studio fosse omologato per poter cominciare a lavorare.

La discriminazione (di razza, di religione, di appartenenza sociale) ci appare lontanissima e insignificante durante la vita perché riconosciamo, in tempo di pace, come sia tanto assurda quanto arbitraria. Ma quando la discriminazione ci colpisce direttamente – come è capitato mille volte a chi scrive – sentiamo che si tratta di un abominio, una malattia della mente e del cuore che crea differenza e distanza dove dovrebbero regnare comprensione e vicinanza.

È molto triste per me vivere oggi in un Paese in cui gli episodi di razzismo, intolleranza, discriminazione e disuguaglianza sono ritornati ad essere prepotentemente al centro della narrazione quotidiana. La strage di Macerata e il recente e brutale omicidio di Soumayla Sacko sindacalista dei braccianti che viveva della tendopoli di San Ferdinando (Rosarno-Reggio Calabria), sono solo due episodi di una lunghissima serie di fatti violenti, sanguinosi, inaccettabili.

Di fronte a questi episodi, dopo la prima, immediata e radicale indignazione-rabbia-vergogna, sento sempre il bisogno di approfondire per cercare di capire meglio la natura di certi fenomeni sociali. Mi viene in aiuto, in questo caso, un ottimo volume collettivo ben curato da Alfredo Alietti ricercatore dell'Università di Ferrara. Il volume dal titolo: Razzismi, discriminazioni e disuguaglianze: analisi e ricerche sull'Italia contemporanea (Mimesis, Milano-Udine 2017), raccoglie diversi saggi che ci permettono di approfondire questi tristi e attuali argomenti.

Nella sua introduzione Alietti ci ricorda che: "il razzismo nelle sue vesti ideologiche e di consenso elettorale crea legame sociale, soprattutto tra i gruppi sociali autoctoni più vulnerabili, colpiti intensamente dalle politiche neoliberali di austerità. Un legame che si nutre, soprattutto, di risentimento, di un “rancore socializzato” nei confronti dello straniero, visto quale usurpatore di diritti e di risorse esclusivi e, di conseguenza, come nemico" (p. 10). Il razzismo ritorna nei momenti in cui i legami tradizionali subiscono il colpo dell'accelerazione sociale e si assiste a veri e propri ritorni di fiamma: "ritorno del classico antisemitismo nella sua forma complottista ed elitaria, mai del tutto scomparso dentro l’immaginario razzista europeo e italiano, il perdurare dell’ampio e diffuso razzismo contro le popolazioni rom e sinte, l’enfasi xenofoba diretta ai flussi di rifugiati e richiedenti asilo rappresentano i segnali di una crisi profonda che colpisce soprattutto le nostre società democratiche incapaci di fare i conti con le inedite domande di cittadinanza" (p.11). Alietti mette in evidenza come si debba parlare di discriminazione piuttosto che di razzismo o pregiudizio perché sono in gioco comportamenti sociali e politiche amministrative che creano "disuguaglianze strutturali" (pp. 12-15).

Forme della discriminazione

Nel primo capitolo del libro, Alberto Guariso introduce la fondamentale questione normativa e le sue declinazioni nei termini di contrasto alla discriminazione nelle sue manifestazioni dirette ed indirette. L’autore, sottolinea come ci troviamo di fronte ad una sequenza di atti amministrativi chiaramente discriminatori orientati alla ricerca di un facile consenso e, sovente, sostenuti dall’ignorare le norme in vigore. Il secondo capitolo di Alfredo Alietti, introduce i risultati di una ricerca condotta in Lombardia sulla percezione del fenomeno discriminatorio su un campione di cittadini e cittadine straniere residenti. L'analisi conferma che il lavoro e la casa raffigurano quegli spazi relazionali in cui si avverte una più ampia percezione di essere trattati differentemente. Nel terzo capitolo di Antonio Ciniero si analizza il prevalere di mansioni meno qualificate nei settori secondari e marginali, con alcune sacche di condizioni di precarietà contrattuale che alimentano una combinazione tra economia formale e informale, terreno in cui s’incunea la discriminazione. Discriminazioni che risultano strutturali e che colpiscono l’accesso e le stesse condizioni di lavoro, sommate alle difficoltà inerenti a norme e regole che favoriscono la segmentazione del mercato del lavoro migrante (riconoscimento dei titoli di studio o delle qualifiche). Nel quarto capitolo sull’abitare e sulla casa di Alfredo Agustoni si evidenziano con particolare attenzione gli elementi spaziali e sociali che compongono il quadro della discriminazione in questa ambito. In primo luogo, si assiste alle difficoltà d'inserirsi nel mercato alloggiativo in ragione dell’appartenenza etnica, le quali configurano un accesso al bene casa, affitto o proprietà, denso di prevaricazioni limitanti il diritto ad una casa dignitosa. Inoltre, le indagini mettono a fuoco la diffusa discriminazione nel mercato degli affitti privati, la cui conseguenza, sovente, è una strategia volta a dirottare tale domanda verso uno stock abitativo degradato, “con l’ingenerarsi di un circolo vizioso tra degrado edilizio e concentrazione di popolazione straniera”.Nel quinto contributo, Emanuela Bonini analizza sulla scorta delle ricerche sul sistema scolastico italiano il potenziale, o reale, portato discriminatorio nei confronti della componente studentesca straniera a partire dai modelli d’integrazione assunti dalle normative d’intervento nella scuola, lo svantaggio riguardante l’etnicizzazione delle difficoltà di apprendimento e sugli effetti della segregazione scolastica. Il sesto capitolo, curato da Alvise Sbraccia e Francesca Vianello, riguarda il sistema penitenziario. La riflessione evidenzia i meccanismi segregativi in chiave etnica dentro le carceri, ad esempio, la costituzione di vere e proprie “sezioni etniche”, un modello che richiama quanto emerso nelle dinamiche spaziali discriminatorie presenti nelle realtà metropolitane italiane ed europee. Il settimo capitolo di Claudia Mantovan discute uno dei temi più sensibili nell’immaginario politico e amministrativo raffigurato dalla discriminazione dei migranti nello spazio pubblico della città. Nello specifico, si segnala la reiterazione nel circuito dei mass-media della relazione tra presenza dell’immigrato e degrado urbano, con il conseguente armamentario semantico che nutre un immaginario d'insicurezza e di perenne conflitto. Gli effetti di tale martellamento in negativo sono individuabili nella pressione esercitata nei confronti delle forze di polizia nell’attivare azioni di disturbo nei confronti dei gruppi d'immigrati le quali addensano chiari aspetti discriminanti come il controllo continuo dei documenti e/o dei negozi etnici. Il corto circuito tra politiche securitarie, retoriche di allarme sociale e sentimento anti-immigrazione riduce progressivamente il diritto alla città e indebolisce le capacità di avviare un mutamento verso “una città inclusiva e rispettosa dei diritti di tute le sue componenti”. L’ottavo saggio di Carlo Berini affronta un ulteriore decisivo tema, quello della “discriminazione della parola” relativo alla stampa italiana e locale. L’evoluzione negli anni delle notizie monitorate mostra con chiarezza quanto sia difficile sfuggire alla logica etnicizzante dei reati e degli eventi di cronaca in generale a cui si accompagnano dichiarazioni apertamente razziste e di odio dei lettori attraverso il sito dei quotidiani osservati. Il successivo capitolo di Stefano Allievi nasce da una lunga e articolata riflessione sull’implicazione della presenza dell’islam nello spazio pubblico europeo e italiano. Secondo l'autore la rappresentazione dell’islam e delle comunità immigrate musulmane si nutre costantemente di tutto un armamentario conflittuale che delinea un quadro di incompatibilità. Queste continue conflittualità sostengono un orizzonte di “sospetto e di sfiducia, se non di vera e propria islamofobia” e di “crescita di un clima e di un sentimento anti-musulmano in Europa”. In tali condizioni tendono a giustificarsi, quasi come naturale esito, le discriminazioni che agiscono contro i gruppi e gli individui marcati negativamente dalla loro appartenenza religiosa e culturale: le numerose campagne anti-moschea che si sono succedute nel tempo nelle principali città italiane, soprattutto nelle regioni del nord e del centro, e più recentemente la promulgazione di leggi dal carattere discriminatorio le quali impediscono di fatto la costruzione di moschee attraverso norme urbanistiche arbitrarie. L’ultimo capitolo, scritto da Stefano Pasta e Tommaso Vitale, ci offre un’approfondita analisi sugli stereotipi culturali, pregiudizi e discriminazione che, come anticipato, colpiscono diffusamente le comunità rom e sinti. Le ripetute testimonianze degli apparati giudiziari, ricerche accademiche, denunce della falsità di tali accuse da parte della società civile appaiono inutili e impotenti di fronte alla facilità con cui diviene legittimo colpire e denigrare rom e sinti. Tutti questi saggi, delineano una mappa del fenomeno discriminatorio molto dettagliata che permette d'ipotizzare percorsi e possibili "soluzioni" di fronte a elementi di arretratezza culturale e recessione civica che mettono in discussione l'idea di una cittadinanza aperta, inclusiva, plurale.

Ci salveremo non accrescendo il nostro potere, ma riscattando la nostra umanità

Lewis Mumford

Il lavoro degli immigrati

Per questioni legate alla mia pratica quotidiana di supporto a chi ha perso il lavoro o lo sta cercando, ho trovato di grande interesse il capitolo di Antonio Ciniero sul lavoro che conferma alcune osservazioni empiriche. Il saggio mette in evidenza: "il perdurare di pratiche discriminatorie legate al sotto inquadramento, alla sotto remunerazione o all’offerta di condizioni lavorative informali (p. 89) e che: "Il processo di inserimento lavorativo dei cittadini stranieri continua ad avvenire prevalentemente attraverso una forma che già nel 1999 Maurizio

Ambrosini definiva di integrazione subalterna. Si tratta di una forma di integrazione che ha finito per far coincidere, per lo meno nel sentire comune, il lavoro dei migranti tout court con il lavoro dequalificato. Nel caso dei lavoratori immigrati, la definizione di lavoratore precario e dequalificato, più che una definizione tecnica, è divenuta una definizione sociale (p. 88). Le storie d'immigrati che raccolgo nel mio lavoro mi parlano di condizioni di continua discriminazione, turni più lunghi, stipendi più bassi e un generale clima di minaccia continua. Di fronte a queste esperienze vissute non posso fare a meno di ricordare le osservazioni di Abdelmalek Sayad quando nel suo libro La doppia assenza: dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, R. Cortina, Milano 2002, così scrive sul valore del lavoro per l'immigrato: "Il lavoro è la ragion d'essere dell'emigrazione e, in ultima istanza, la ragione ultima del male e del malessere che si prova immigrando e dei quali l'immigrazione è vista come responsabile. […] lavorare tende pure ad identificarsi e ad essere totalmente identificato con il vivere, perché, nella situazione di ristrettezza sociale in cui si rifugia il "melanconico", il lavoro costringe a vivere e non solo permette di vivere. Perciò ha una funzione letteralmente vitale, una funzione salvifica, perfino terapeutica. Bisogna continuare a vivere e bisogna, di conseguenza continuare a lottare con tutte le proprie risorse contro il blocco, contro quella specie di stagnazione dello stupore, il che significa in questo caso lavorare. Lavorare è la sola ragione del vivere nell'immigrazione" (p. 193). Il destino della maggioranza degli immigrati in Italia oggi sembra quello di occupare una posizione marginale nel lavoro e di conseguenza nella società. Questo non ci permette di fare il "salto" nella società multietnica e ci abbandona a un idea di società arcaica in cui pochi benestanti vivono "nella bolla del benessere" mentre una larga fascia della popolazione vive quotidianamente "la guerra dei poveri".

La deindustrializzazione selvaggia

Alla condizione degli immigrati si associa, nella sventura, anche quella degli italiani che si trovano a vivere in zone di deindustrializzazione come gli ex operai della FIAT di Termini Imerese. Il libro di Tommaso India, Antropologia della deindustrializzazione: il caso della Fiat di Termini Imerese, Editpress, Firenze 2017, fa luce su uno degli episodi più dolorosi della storia socio-economica del nostro Paese e ci fa rendere conto di come: "la precarietà professionale ed esistenziale dei lavoratori italiani, ma non solo, è una condizione comune nella nostra società, che trascende le divisioni di classe, formazione, età, sesso e genere. All'interno dell'ottica dell'economia neocapitalista, questa precarizzazione è attuata e perseguita al fine di mettere in competizione i lavoratori fra di loro e farsi carico di una quantità di responsabilità assistenziali ed economiche di gran lunga rispetto al passato. Ciò che accade al livello dei lavoratori subalterni è l'attuazione di una vera lotta fra poveri che si concretizza nel "gioco" di rivalità, conflittualità e divisioni" (p. 25). La "fuga" di Marchionne da Termini Imerese ha trasformato un territorio – un tempo fiorente – in un deserto con conseguenze enormi – e ancora tutte da quantificare – sulla vita di un territorio che nella fabbrica aveva un "centro" e un "identità" che si sono dissolte come neve al sole. Quella di Termini Imerese è una dinamica di desertificazione sociale che si ripete in ogni parte del mondo e che non viene tenuta in conto dai teorici della "ricaduta favorevole" o del "gocciolamento". Uno dei mille episodi della dinamica dell' "economia canaglia" così ben analizzata da Loretta Napoleoni.

Ansie di altre città

Essere oggi cittadini italiani implica un impegno costante – e a volte, snervante – di osservazione critica dei fenomeni sociali e di difesa dei diritti Costituzionali. Non possiamo distrarci un attimo o ripiegare per pochi giorni "nel privato" che già avanzano orde di razzisti, odiatori virtuali e reali, urlatori, demagoghi, perversi mediocri e piccoli burocrati assetati di potere.

Sembra che ogni nostra conquista sociale e politica debba sempre essere "riconquistata" il giorno successivo. Come se non ci fosse memoria, come se non ci fosse più comunità di destino. La lotta tra Prospero e Calibano (così magistralmente analizzata da Lewis Mumford nel suo Per una civilta umana, Libri Scheiwiller, Milano 2002), c'impone un continuo ripensamento dei valori a cui teniamo di più, come se il delirio e la follia più oscura minacciassero continuamente una fragile "salute mentale sociale".

E' per questo motivo che intendo concludere queste mie riflessioni con una citazione del profondo libro di Francesco Postorino, Croce e l'ansia di un altra città, (Mimesis, Milano-Udine 2017): "La notte del postmoderno, che oggi ci invade, può essere respinta se non si smette di prestare attenzione alla luce trascendentale del mattino dipinta con enfasi religiosa da Capitini, al desiderio di incrociare quei lui calogeriani sparsi nel pianeta che urlano a voce bassa un semplice diritto universale, alla necessità pedagogica di rifiutare le crude verità dello storicismo e soprattutto la triste menzogna di un capitale sregolato" (p. 19).

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