Welfare
Sedersi allo stesso tavolo con volontariato e profit. Il futuro passa da qui
Carlo Borzaga: «Il rapporto con questi due mondi ora è cruciale»
La cooperazione sociale ha rappresentato un’innovazione radicale. Un esempio di come sia possibile destatalizzare importanti settori del welfare senza per questo rinunciare al loro carattere di “interesse pubblico”. È stato uno strumento utile per ripensare un sistema di protezione sociale che oggi appare fatalmente giunto al termine del suo ciclo di vita.
Anche se è vero che una parte delle cooperative sociali ha abdicato alla sua missione di innovazione sociale, preferendo operare come fornitore della pubblica amministrazione, nel dna di queste imprese si riconosce un modo diverso di concepire non solo il welfare ma anche la cittadinanza in generale. Se oggi il welfare italiano è fatto anche di servizi e non solo di trasferimenti monetari; se lo stesso sistema opera sempre più spesso a livello locale cogliendo meglio i bisogni e intercettando nuove risorse; se sono state inventate attività, come l’inserimento lavorativo e i servizi sociali a domicilio, ebbene tutto questo è in gran parte merito della cooperazione sociale.
L’anniversario dell’approvazione della legge sulla cooperazione sociale rappresenta l’occasione giusta per “tirare la linea”, per capire che un ciclo è finito e che si apre una nuova fase in cui la scommessa è quella di rendersi sempre più autonome percorrendo strade ancora una volta innovative.
In questo quadro due sono gli obiettivi prioritari. Il primo riguarda il rapporto con le imprese private, un rapporto che non è mai stato curato a sufficienza e che invece sarà nel futuro sempre più ricco di opportunità. Porto ad esempio il caso di Conegliano, dove l’Agenzia per il lavoro ha investito parte dei fondi che per legge deve destinare alla formazione, nella formazione in cooperativa sociale di personale svantaggiato. È un vero investimento sul “capitale umano”, molto apprezzato dalle aziende cui viene offerta un’opportunità di assolvere in modo non assistenzialistico ai doveri della legge 68.
Il secondo obiettivo è quello che riguarda il rapporto con il volontariato. In quello stesso anno vennero approvate due leggi, la 381 sulla cooperazione sociale e la 266 sul volontariato, che finirono con il creare un’opposizione: da un parte l’area dell’impresa sociale, dall’altra l’ambito della gratuità. Con gli anni si è alzata la barriera delle incomprensioni e dei pregiudizi a scapito della crescita degli uni e degli altri. Considero un equivoco pensare che la caratteristica prima del volontariato sia la gratuità e non l’innovazione. La gratuità è fattore importante ma non è una categoria assoluta: chi fa volontariato guadagna in benefici relazionali, e sempre più spesso l’esperienza viene segnalata nei curriculum come valore aggiunto al proprio profilo professionale. Piuttosto il volontariato è sempre innovazione, in quanto è capace di rispondere a bisogni sviluppando attività che non aggiungono costi. Dovrebbe essere nell’ordine delle cose che il volontariato quando produce servizi evolva poi in impresa sociale. Invece non è così.
I due mondi separati hanno fatto sì che oggi sia raro il passaggio dall’esperienza di volontariato al lavoro in un’impresa sociale, quasi per un pregiudizio verso ciò che è attività imprenditoriale. E dall’altro lato sono poche le cooperative che abbiano al loro interno, soprattutto tra quelle con meno anzianità sulle spalle, una componente di volontariato.
Invece bisogna abbattere il muro, anche ai fini di uno sviluppo della cooperazione sociale. Ho sempre auspicato che da una logica di appalti al massimo ribasso si vada verso una dinamica opposta che premi chi offre di più in termini di servizi. Una dinamica che favorisca chi fa di più. Per questo le coop che avranno saputo integrare una forte componente di volontariato sono quella già proiettate al futuro.
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