Welfare

Secondo Welfare: andata e ritorno

di Flaviano Zandonai

Per fare il secondo welfare, come suggerisce il recente articolo di Dario Di Vico e lo spin-off del suo blog, servono politiche, risorse e però anche nuove istituzioni. Poggiarlo sul binomio stato e mercato, con un non profit che al massimo riesce a tamponare i fallimenti dell’uno e dell’altro, è un’operazione velleitaria perché non garantisce un’effettiva trasformazione del modello e una sua sostenibilità nel medio / lungo periodo. L’istituzione c’è, o meglio ci sarebbe. Ed è l’impresa sociale. Un ibrido organizzativo non riconducibile né alle logiche dello Stato (di cui però mantiene la finalità di tipo pubblico), né a quelle del mercato (di cui però assume l’organizzazione d’impresa) e neppure a quelle dell’economia sociale tradizionale (perché allarga il sistema di governo a una pluralità di portatori di interesse, ben oltre il principio della mutualità cooperativa). Se poi si aggiunge che, proprio il nostro paese è pure all’avanguardia nel settore (tanto che pure i giapponesi vengono a conoscere questo strano pezzo di made in Italy), in quanto può contare su 15mila imprese sociali che da oltre trent’anni producono, come recita la legge, “beni e servizi di utilità sociale in vista di obiettivi di interesse generale”, il gioco sembrerebbe fatto. E invece no, o almeno non del tutto. Dopo una fase pionieristica segnata da un consistente contributo di innovazione produttiva e, in senso lato, sociale nel campo del welfare socio assistenziale e delle politiche del lavoro grazie soprattutto alle cooperative sociali si è assistito ad un loro ripiegamento su strategie e comportamenti da primo welfare. Perché? Le pubbliche amministrazioni, soprattutto quelle locali sollecitate dai bisogni emergenti, hanno riconosciuto in queste imprese un ottimo fornitore di servizi, flessibile e “low cost”. E molte di imprese sociali hanno accettato questa impostazione rinunciando, o ridimensionando, il loro radicamento sociale e comunitario dal quale ricavavano reputazione sociale e importanti risorse (non solo di mercato ma anche donative e di volontariato) che contribuivano a definire un modello produttivo di servizi di welfare sostenibile e difficilmente imitabile. Ma le cose stanno di nuovo cambiando. I tagli delle pubblica amministrazione, ma soprattutto il riemergere di nuove forme di aggregazione dei bisogni tra i cittadini secondo una gamma fenomenologica davvero ampia (dal badantato ai nuovi stili di vita) favorisce la rinascita del fenomeno in nuove forme organizzative e giuridiche, ed anche una riconversione di “vecchie” cooperative sociali sempre più consapevoli che dall’outsourcing pubblico non vengono risorse adeguate ma soprattutto non viene una legittimazione a perseguire, nei fatti, una mission che risponde “all’interesse generale della comunità”.

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