Formazione

Seconda generazione /Minori: il loro problema? Il futuro.

Cosa ne sarà di questi ragazzi una volta compiuti i 18 anni?. Parla Andrea Cainarca, coordinatore della comunità Oklahoma, un centro che a Milano offre accoglienza a 28 ragazzi

di Redazione

Andrea Cainarca, educatore «Il problema è dopo. Cosa ne sarà di questi ragazzi una volta compiuti i 18 anni?». Andrea Cainarca, milanese di 33 anni, è il coordinatore della comunità Oklahoma (www.oklahoma.it), un centro che all?estrema periferia meridionale di Milano offre accoglienza a 28 ragazzi fra i 14 e i 18 anni. Tutti maschi. Tutti con alle spalle storie di violenza praticata o subita. Tutti con un grosso punto interrogativo alla casella ?futuro?. «Finché i ragazzi stranieri sono minorenni, lo Stato ha l?obbligo di occuparsi di loro. Arrivati alla maggiore età, se ne può lavare le mani, come puntualmente accade», il tono è un misto di rabbia e rassegnazione, «per tante esistenze che arrivate alla soglia dell?integrazione vediamo ripiombare nell?illegalità senza poter muovere un dito». In questa struttura, che fino agli anni 80 era un asilo, oggi vivono 21 maghrebini, 5 albanesi, un italiano e un cingalese. Molti di sono minori non accompagnati, altri arrivano direttamente dal Beccaria, il carcere minorile del capoluogo milanese. «Da qualche anno a questa parte la prevalenza dei nordafricani è schiacciante». Gli attentatori di Madrid e Londra avevano circa 10 anni più dei ragazzi che incontriamo qui dentro. Mai pensato di star crescendo una cucciolata di possibili kamikaze? «Non si può mai dire. Questi sono ragazzi difficili, ma non riescono ad essere dei veri musulmani, al massimo non mangiano il maiale, ma non ce ne è uno che frequenti la moschea. E quando un imam di un?associazione musulmana qui vicino ha cercato di instaurare una relazione con loro, ha alzato bandiera bianca dopo due visite». Lo scarso appeal dell?islam non significa però che i giovani marocchini abbiamo spezzato il cordone ombelicale con la famiglia d?origine, anzi. Come spiega Andrea, «mentre gli albanesi hanno una prospettiva migratoria individuale e arrivano in Italia col pensiero di rimanerci, per i maghrebini il meccanismo è più complesso». Come infatti i figli della borghesia italiana vanno a studiare negli Stati Uniti, allo stesso modo le famiglie marocchine spingono i loro figli maschi a lavorare in Italia. «In gergo lo definiamo ?investimento migratorio?. Per i ragazzi è difficile liberarsi da questo peso. E infatti molti di loro inviano a casa tutti i soldi che guadagnano, anche se noi gli consigliamo di trattenere qualcosa per loro: una volta usciti di qui, non avranno alcun salvagente sociale, né un lavoro, né una casa. Si dovranno arrangiare da soli. Ma da questo orecchio non ci sentono. A differenza degli albanesi, infatti, non vogliono vivere qui, ma solo compiere la ?missione? che la famiglia gli ha affidato e per cui ha speso 5mila euro per pagare il viaggio clandestino verso l?Europa». di Stefano Arduini e Benedetta Verrini


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