Cultura

Sebastiao Salgado. Cambiare il mondo con un click

Il leggendario fotografo brasiliano si racconta in questa intervista. E rivela le ragioni e lo stile del suo lavoro.

di Emanuela Citterio

Gilet senza maniche, scarpe comode, calze di spugna nere. Sebastião Salgado, il grande fotografo brasiliano, ci accoglie nella sala della Banca popolare di Milano dove sta per tenere la sua relazione, nell?ambito di una conferenza organizzata da Banca Etica, Caritas ambrosiana e altre associazioni lombarde. Tema: la povertà.
Non esattamente un look da conferenza, il suo. Sembra piuttosto quello collaudato ed essenziale di chi sta per mettersi in cammino da un momento all?altro. In cammino, La mano dell?uomo, Terra sono i suoi reportage che hanno fatto il giro del mondo. Per realizzare il primo, Salgado ha attraversato più di 35 Paesi, documentando in sette anni di lavoro l?epopea dell?umanità spinta sulla strada dalla guerra, dall?instabilità o dalla fame. La fatica del lavoro umano e il legame con la terra sono gli altri temi ricorrenti delle sue opere. “Mi impressiona la rottura degli equilibri”, afferma. “Dall?esodo di centinaia di migliaia di persone in cerca di una nuova stabilità fino alla distruzione delle foresta atlantica brasiliana, la natura in cui sono vissuto fin da bambino”.
Salgado è in Italia per parlare dell?Istituto Terra, l?organizzazione non profit creata insieme alla moglie Leila per sostenere la riforestazione della zona dove è nato in Brasile, nello Stato del Minas Gerais. Un progetto di rinnovamento ecologico iniziato dodici anni fa, quando la coppia ha deciso di riacquistare un vasto territorio appartenuto alla famiglia di Salgado, nella municipalità di Aimores. In quarant?anni la foresta atlantica, uno dei patrimoni del pianeta in quanto a biodiversità, era stata ridotta allo 0,3 per cento di quello che era prima. “All?inizio tentare di recuperare sembrava un sogno impossibile”, ammette Salgado. “Ma abbiamo cominciato, e in questi anni siamo riusciti a piantare più di 500mila alberi e abbiamo fatto crescere un vivaio con centinaia di specie diverse”. In Italia, Salgado ha aperto un conto presso Banca etica per chi vuole contribuire al progetto (Istituto Terra c/c 512512, abi 05018, cab 01600). In Brasile, ad Amoires, è sorta anche una scuola ambientale per diffondere le nuove tecniche agricole e di riforestazione secondo i criteri dello sviluppo sostenibile. Salgado è riuscito a coinvolgere anche gli indios, oltre ai contadini e agli allevatori di bestiame della zona. “È molto complicato”, ammette, “perché allo squilibrio ambientale si accompagna sempre quello sociale ed economico”.
Insieme alla documentazione della realtà come fotografo, Salgado non ha mai smesso di coltivare uno sguardo attento alle cause che sono all?origine della povertà. Sì, perché prima di diventare uno dei fotografi più famosi al mondo, e prima anche del suo impegno sociale, Salgado di professione faceva l?economista. I primi viaggi in Africa li ha fatti con l?Organizzazione mondiale del caffè, come esperto di statistica. È la moglie Leila, nel 73, a mettergli fra le mani una macchina fotografica. Ed è allora, all?età di 29 anni, che Salgado scopre la sua capacità di guardare la realtà attraverso un obiettivo, scegliendo di dedicare il resto della sua vita alla fotografia. Negli ultimi trent?anni è stato negli angoli più sperduti del mondo appoggiandosi alle organizzazioni umanitarie. I suoi reportage hanno fatto conoscere e sostenuto l?opera di diverse associazioni di volontariato, anche italiane, che operano nei Paesi in via di sviluppo. Uno degli ultimi lavori racconta la storia della lotta contro la poliomelite, in collaborazione con l?Organizzazione mondiale della sanità e con l?Unicef. Fra un mese, all?età di 60 anni, partirà per “l?ultimo grande viaggio”.
D. Otto anni di lavoro per un progetto che ha chiamato Genesi, in cui documenterà quel che resta della natura incontaminata e di popolazioni che vivono ancora in armonia con essa. Cosa la spinge a intraprendere un?impresa fotografica così lunga e impegnativa?
R. Otto anni non è tanto tempo. Il tempo è lungo se pensiamo all?avvenire. Se invece guardiamo indietro, al passato, otto anni è tutto il tempo che è già passato dalla guerra in Bosnia, e ne sono già trascorsi dieci dal genocidio in Ruanda. Uno fa fatica a immaginarsi l?avvenire. Ma il passato non è niente.
Genesi è un progetto ampio, che si svolgerà nell?arco di otto anni, ma a più riprese. Lavorerò con la natura e con gli animali, ma anche con le comunità umane. Voglio documentare mondi che stanno scomparendo, isolati ancora per poco dal resto della civiltà.
D. Come nasce un progetto fotografico come quello che ha in programma?
R. È difficile dire perché parto, qual è stato il momento in cui ho deciso o qual è la ragione. Genesi è un progetto che è venuto dolcemente. Ho cominciato a concettualizzarlo tre anni fa ma arriva da molto lontano. La decisione di intraprendere un nuovo lavoro nasce dalla continuità delle cose. Mentre uno lavora arriva un momento in cui si immagina un?altra cosa e, quasi inconsciamente, si prepara a un?altra attività. È una suggestione che matura nel tempo, e che poi si trasforma in un progetto.
D. Le sue fotografie ritraggono spesso situazioni di sofferenza. Come documentare salvando la dignità delle persone?
R. Non sono d?accordo sul fatto che le mie immagini tocchino la sofferenza degli altri. Toccano semplicemente la vita degli altri. Ritraggono le condizioni di vita della maggioranza della popolazione di questo pianeta. Mentre in Europa tendiamo a proteggerci dalla sofferenza, identificando situazioni di vita molto difficili con l?emarginazione, in altri Paesi del mondo la sofferenza ha a che fare con la vita quotidiana, è un modo ?naturale? di vivere. Vede, c?è dell?ingiustizia nel nostro pianeta. Solo gli Stati Uniti detengono l?80 per cento del risparmio di tutto il pianeta. L?Europa e il Giappone un altro 15 per cento. È un tipo di sviluppo che sta avvenendo a spese dell?intero pianeta. E questo squilibrio si manifesta a livelli gravissimi in alcune zone del mondo. L?Africa sta attraversando un periodo terribile della sua storia. Nessuno si avvicina veramente a questo continente se non per depredarne le risorse. Si parla di scontri etnici, ma le guerre africane hanno all?origine cause economiche che provocano destabilizzazione sociale.
D. Nel progetto di rigenerazione della foresta lei ha coinvolto anche la comunità locale, comprese le popolazioni indigene. Come c?è riuscito?
R. È stato ed è tuttora molto difficile. Viviamo in una lotta continua. Portare avanti un progetto ambientale di sviluppo sostenibile è complicato. Ci sono problemi sia dal punto di vista tecnico che di rapporti con la comunità. Perché al degrado ambientale si accompagna sempre quello sociale ed economico, e quindi è necessario cambiare le scale di valori. Un lavoro lungo e difficile.
D. Sua moglie condivide con lei questo progetto, e come architetto è anche l?ideatrice di molte delle sue mostre e presentazioni. Quanto contano gli altri nel suo lavoro?
R. C?è in qualche modo un?ingiustizia nel modo di presentare le cose. Ci si immagina che un fotografo lavori da solo, che le sue opere siano solo opera sua. E che tutto quello che fa, il lavoro e i progetti sociali, siano il prodotto di una specie di super-ego. In realtà si tratta di un lavoro di équipe. E la prima persona che ne fa parte è mia moglie. Siamo insieme da quasi 37 anni e condividiamo il lavoro sia per quanto riguarda la fotografia sia per tutto ciò che riguarda l?Istituto Terra. In più, ci sono 70 persone che lavorano con noi a questo progetto e possiamo contare sul sostegno di molti amici sparsi per il mondo. È senza dubbio un progetto collettivo.
D. Ricostruire la foresta, rivedere gli equilibri economici, responsabilizzare più soggetti… Non le sembrano imprese titaniche?
R. Ad Amoires, quando ero bambino, vivevano 35 famiglie, e ricavavano dalla terra tutto ciò che era necessario per vivere. Poi l?economia si è radicalmente trasformata in funzione dell?esportazione. La foresta è scomparsa per produrre legname da vendere su altri mercati. Ora il Brasile produce il doppio della carne di cui ha bisogno per soddisfare il consumo negli Usa. Le arance non sono un prodotto dell?agricoltura brasiliana, ma ora si producono. Si congelano qui e il 60 per cento viene esportato. In Brasile Lula cambierà le cose? Io credo piuttosto che ognuno possa fare la sua parte per costruire una globalizzazione più umana. E io non mi sento da solo su questa barca.

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