Cultura

Se un giovane si toglie la vita a Tresivio

Riflessione in margine a una tragedia. L'ultimo giorno dell'anno in un piccolo paese della Valtellina un ragazzo di 18 anni decide di farla finita.

di Aldo Bonomi

E' bello tornare alla propria comunità originaria, al paese, in valle almeno per le feste di Natale. «Resta sempre lassù il paese», ci ricorda Cesare Pavese. Scrivendo delle sue Langhe prima di morire suicida in un albergo di fronte alla stazione di Torino. Ho pensato a lui, al suo scrivere, in questo inizio d?anno. Cercando di capire il perché un giovane del mio paese, Tresivio, si è tolto la vita la notte di Capodanno. Avrei voluto fermarmi ogni volta che passavo di fronte alla casa dei genitori, in contrada Sant?Antonio, per capire con loro. Per condividere l?umana disperazione di chi resta.

Quelle parole sospese
Non mi sono fermato. La morte di una persona cara lascia sempre un discorso interrotto. Parole sospese che non si pronunceranno più. E le parole dell?altro non possono sostituirle. L?elaborazione del lutto, per una madre, un padre, non è mai fatto collettivo ma individuale. Ma l?umana solidarietà di paese, della valle tutta, deve a sua volta elaborare un lutto collettivo. Che ci piaccia o meno, ci tocca. Rispondere come società locale interrogandoci su quei numeri delle fredde statistiche nazionali che ci collocano primi tra le province italiane nelle percentuali dei suicidi e dei tentati suicidi. Non fosse altro per dire a quella famiglia di Tresivio che non sono soli. Poca cosa il «mal comune mezzo gaudio». Può sembrare irriverente di fronte alla tragedia di chi non c?è più. Ma non possiamo continuare a nascondere quei numeri e quelle percentuali come polvere sotto un tappeto fatto di altri numeri: quelli del nostro benessere, del nostro risparmio e del nostro essere tutti al lavoro nella classifica che ci vede tra le prime province italiane per la qualità della vita. La polvere sotto il tappeto sono vite spezzate che fanno apparire senza senso terminologie socioeconomiche molto di moda come «qualità della vita». Senza desiderio di vita l?aggettivo qualità appare ridicolo. Se non affrontiamo questa questione sociale le questioni economiche sono ben poca cosa. Il nostro avere quasi tutti una casa di proprietà, il nostro avere una o più macchine per famiglia, il nostro essere campioni di risparmio e chi più chi meno azionisti delle nostre due banche in una società che non riesce a trasmettere voglia di mangiare futuro, è ben poca cosa. Anche se questo ci permette di elargire la paghetta settimanale ai figli, di mandarli a studiare all?università, di vederli partecipare ai miti e ai riti ipermoderni della discoteca a 14 anni e alla rincorsa del consumo griffato nelle piazze dei nuovi ipermercati di fondo valle.

La polvere del sociale
Collettivamente dobbiamo scavare nello iato tra la polvere del sociale, delle nostre istituzioni di comunità – dalla famiglia alla parrocchia sino alla scuola – e il tappeto spettacolare dell?economia. In mezzo tra economia e società c?è poco o nulla. In questo nulla ci si può perdere, si può perdere il senso del vivere, la capacità di confrontarsi con il nuovo e le difficoltà che avanzano. Ai curatori delle anime e della psiche, ai confessionali e agli psichiatri la cura del disagio individuale. A chi si occupa di società, dei processi collettivi, alle istituzioni e alla politica tocca ragionare su cosa e come mettersi in mezzo tra un pieno di retorica economica e un vuoto di coesione sociale. Utilizzando una terminologia più letteraria che sociologica ho definito spesso la mia Valtellina «un?area triste». Attirandomi spesso le critiche dei miei convalligiani compresa quella del direttore del quotidiano più diffuso in valle, La Provincia.

Senza paese
Non vorrei dire, ma quei numeri del disagio che si fa assoluto sino a negarsi la vita, sono un dato triste. Che rimanda a quello che l?antropologo Ernesto De Martino chiamava «apocalisse culturale», che ci prende quando non ci riconosciamo più in ciò che ci era abituale. Quando una società è presa dall?anomia, cioè non è in grado di trasformare in valori socialmente condivisi il rapporto con il cambiamento. Questo ci fa sentire un po? tutti spaesati, letteralmente senza paese. Negli ultimi 50 anni siamo molto cambiati. Da territorio agro-silvo pastorale, «terra della malora», da cui si emigrava e dove gli indicatori del benessere erano ancora le castagne, il latte e il vino, siamo entrati nell?industrialismo con la costruzione delle dighe e delle centrali che alimentano case e fabbriche di Milano. E? stato il nostro fordismo. Con quei soldi e con quel benessere è stato costruito un modello di sviluppo diffuso. Tante case di proprietà, tanti geometri, tante piccole imprese edili in ogni paese, tanto lavoro transfrontaliero in Svizzera. Non abbiamo mai smesso di emigrare. Per i più fortunati, per quelli con più relazioni, lavoro nelle banche, nella sanità e nel pubblico impiego. Poi è arrivata la terziarizzazione.

La piccola illusione
Con il volto dolce e soft della turistizzazione del territorio, delle seconde case, dei grandi eventi come i Mondiali di sci, degli ipermercati nel fondovalle, siamo diventati un distretto bancario con un?alta rendita e speculazioni sulle operazioni immobiliari. Senza accorgercene siamo stati inglobati nel distretto dell?intrattenimento alpino. Il tutto avveniva con il lento declinare delle figure di leadership della comunità locale sostanziate dalle figure idealtipiche del capofamiglia, del parroco, della maestra, del medico condotto e del maresciallo dei Carabinieri. I cicli lenti della microeconomia si interfacciavano con i flussi della ipermodernità. Assieme alla scomparsa delle figure sociali di riferimento mutavano i luoghi della socialità e dell?economia: dai circoli Acli ai bar, ai negozi di paese, alle latterie turnarie sino agli uffici postali, alle scuole e alla crisi dei presidi ospedalieri locali. Non è più quell?impianto comunitario ove si faceva la spesa con il libretto e si saldava a fine mese. Segno di una cartamoneta che aveva nella parola e nella fiducia il valore di scambio. Appare un territorio ad alto benessere sospeso tra il NON PIU? E IL NON ANCORA. Ciò che non è più, angoscia e spiazza i nostri anziani; ciò che non è ancora impaurisce, turba e rende deboli i nostri giovani. Gli uni malati di nostalgia, gli altri impauriti nell?affrontare l?ipermodernità che avanza. Giustamente si discute di poli tecnologici, di rinegoziare i rapporti con i padroni delle acque e delle centrali, del futuro delle banche locali, del modello di sviluppo turistico e della modernizzazione della strada di fondovalle, sognando spesso una valle alpina dove si gioca a golf e si va a Roma in aereo da Caiolo. I dati del disagio sociale ci dicono anche che è urgente fare società. Anche la cronaca ce lo ricorda. Dopo il suicidio dell?ultimo dell?anno, questa settimana l?omicidio di una donna a Castello dell?Acqua da parte del suo violento convivente.

La comunità che viene
È urgente costruire luoghi ove chi ha nostalgia, chi ha paura, chi ha difficoltà possa raccontare e raccontarsi. Se la famiglia non basta più, se la parrocchia e l?oratorio non bastano più, l?alternativa non può essere solo la discoteca, l?ipermercato o l?esodo verso Milano senza più tornare. Si devono mettere in mezzo le figure sociali, ciò che resta delle istituzioni di comunità dei nostri paesi e la ?comunità che viene? nel nuovo ciclo di modernizzazione economica e sociale. Penso ai parroci, ai sindaci, ai direttori scolastici che da soli possono ben poco se non assieme alle nuove figure di una società secolarizzata. Penso alle Asl, agli psichiatri, agli psicologi, ai giornalisti, a quelli che lavorano comunicando, ai giudici, a quelli che si riuniscono nei Rotary e nei Lions e ai nuovi soggetti dell?economia locale. Solo mettendo assieme quelli che stanno sul terreno e vedono scomparire e declinare la comunità originaria e quelli che stanno sul non ancora dei grandi cambiamenti è possibile ricostruire luoghi ove fare società. Che altro non significa che dire all?altro da sé che non è solo. Parliamone.

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