Famiglia
Se un adolescente è affascinato dall’estremismo, la scuola deve accorgersene
Milena Santerini ha una grande esperienza nella formazione interculturale. Oggi è presidente dell’Alleanza parlamentare contro razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa. Le abbiamo chiesto qualche consiglio per parlare con i ragazzi di quanto sta succedendo nel mondo
Milena Santerini da una vita si occupa di educazione interculturale, formazione degli insegnanti, inclusione sociale, dialogo fra persone di religioni e culture diverse, a cominciare dalle aule scolastiche. Insegna Pedagogia alla Cattolica di Milano e ne dirige il Centro per la ricerca e le relazioni interculturale. Oggi, nelle vesti di deputato del gruppo Per l'Italia e di presidente dell’Alleanza parlamentare contro razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa è a Strasburgo al World Forum for Democracy, dedicato al tema “Freedom vs control: For a democratic response”. Coordina un panel su come rispondere alla sfida di “Liberare la società dalla paura e nutrire il desiderio di libertà”.
Professoressa, che risposta darebbe lei a questa domanda?
Nel breve termine conviveremo con la paura, mi sembra ovvio, però dobbiamo continuare a coltivare il desiderio di esserne liberi. Il titolo in questo senso è bellissimo. L’estremismo è una patologia che nasce dal fatto di avere gestito alcune situazioni internazionali in maniera molto poco orientata alla giustizia e alla solidarietà. Le risposte politiche e diplomatiche al terrore c’erano ieri e ci sono ancora. Io credo che un punto importante sia il fatto che in Europa non abbiamo considerato abbastanza che l’hate è un sistema unico, abbiamo difeso gli ebrei ma non i musulmani oppure i musulmani ma non gli ebrei, abbiamo creato divisioni fra vari gruppi. Mi sembra significativo che Junker proprio ieri abbia ricordato che gli attentatori di Parigi sono le stesse persone da cui fuggono i rifugiati.
Pensando alla scuola e agli insegnanti, che consigli si sente di dare per evitare che le aule siano la prima culla della divisione in gruppi e al contrario il primo luogo in cui fare esperienza di essere una unica umanità?
Intanto in questo momento è importantissimo evitare – magari anche con buone intenzioni – di sottolineare che i bambini musulmani sono “speciali”, di creare un noi e voi anche implicito. Questa è la prima cosa che direi. I bambini e i ragazzi musulmano nelle nostre classi non sono speciali, non sono un mondo contrapposto, sono la norma. Invece si rischia di fare anche involontariamente, sottolineando un’appartenenza, l’equazione terroristi uguale islam mentre vediamo tutti che l’Islam è anch’esso sotto attacco, soffre, è colpito, fra le vittime ci sono sempre anche musulmani.
La seconda?
Che l’intercultura del cous cous non basta più. Fino ad oggi abbiamo avuto una conoscenza non incarnata dell’islam, mentre in realtà se guardiamo ai bambini che abbiamo in classe capiamo subito che l’islam della Tunisia è estremamente diverso da quello dell’India o da quello dell’Albania. Quindi dobbiamo conoscere e conoscerci a partire dalle persone, tenendo conto delle specificità, in maniera empatica.
E quando tra queste specificità delle persone si incontra una famiglia particolarmente rigida?
Ci sono anche queste situazioni, è vero. Ricordo che a Milano affrontammo il tema di alcune famiglie che facevano fare il ramadan a bambini delle prime classi delle elementari, le maestre lo ritenevano dannoso. La contrapposizione però è inutile, la chiave è il dialogo: chiamammo un imam autorevole, che spiegò alle famiglie che in effetti il digiuno per bambini così piccoli non era una buona cosa, le famiglie accettarono. Esiste un islam identitario e la scuola deve accorgersi per prima di segnali d’allarme, non può fermarsi alla porta della classe. Se un adolescente è affascinato dall’estremismo, la scuole deve accorgersene.
E cosa fare?
Smontare quei valori dandogliene altri, facendogli vedere che la società democratica non è debolezza. È la stesa cosa che facciamo nei progetti contro la ‘ndrangheta e la mafia. In più qui dobbiamo smontare il risentimento che loro nutrono nei confronti dell’Occidente di cui si sentono vittime.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.