Non profit
«Se tutte si svestono la colpa non è solo di Berlusconi»
Erik Gandini, autore di «Videocracy», il film che ha stupito Venezia
«La cultura del banale ha superato i limiti, ma il problema non è mai una singola persona». La tv? «Non guardarla non serve» L a secchiata d’acqua più gelida sulla televisione nostrana degli ultimi trent’anni a Venezia è arrivata da Videocracy. Il docu-film firmato dal regista italo-svedese Erik Gandini racconta la «rivoluzione culturale» italiana scoppiata con l’avvento delle reti commerciali Mediaset. Le immagini di Silvio Berlusconi si mescolano in maniera inquietante con quelle del Biscione e della Rai. Videocracy segue poi da vicino i nuovi mostri: Riccardo, il giovane bergamasco la cui missione è sfondare in tv, l’agente dei vip Lele Mora, vero pascià nel suo regno, e il solito Fabrizio Corona.
Vita: Ha detto che «Videocracy è nato per spiegare la tv italiana agli amici svedesi che ridono di noi». Ebbene, ridono ancora?
Erik Gandini: Se avesse fatto solo ridere, il mio lavoro non avrebbe avuto senso. La mia intenzione era di far vedere la tristezza che c’è dietro a una realtà che è comica solo in apparenza.
Vita: In generale, il pubblico svedese come ha accolto il suo film sulla tv italiana?
Gandini: In Svezia Videocracy è stato definito un horror movie. Ciò che più ha colpito è l’uso inquietante dell’intrattenimento e la commistione di potere politico e mediatico, impensabile per uno svedese.
Vita: Insomma, tutti santi questi svedesi?
Gandini: La cultura del banale esiste certamente anche in Svezia. Ma in Italia supera ogni limite, il dogma dell’apparire non è un fatto marginale, ma è diffuso ad ogni livello.
Vita: E nella sostanza, invece, è davvero tutta colpa del premier?
Gandini: Senza dubbio la rivoluzione culturale di cui parlo è partita con le sue televisioni commerciali. Detto questo, non è mai una persona sola il problema, è tutto il sistema che lavora in quella direzione. È il berlusconismo diffuso il problema.
Vita: Lele Mora, Fabrizio Corona e Ricky. Vittime o carnefici?
Gandini: Di certo sono tutti un ingranaggio del sistema. E in tutti e tre è fortissima la tensione tra chi è dentro e chi è fuori la tv. Corona stesso racconta che se fosse stato «basso e grasso» non sarebbe diventato così famoso.
Vita: Oltre all’Italia che accondiscende, le sembra che esista un’Italia che sta reagendo?
Gandini: Assolutamente sì. C’è gente che vuole rendersi protagonista del cambiamento, che ad esempio ha scelto altri mezzi per informarsi, come internet o il cinema.
Vita: La soluzione è dunque non guardare più la tv? Siamo sicuri che non sia una scelta pericolosa?
Gandini: In effetti è rischioso, se consideriamo che per l’80% degli italiani la tv rimane la fonte principale di informazione. Però credo che un’alternativa sia possibile, per dirla in inglese: «If you want to make the revolution, you’ve got to give the people something better».
Vita: Sarebbe stato possibile fare un documentario come Videocracy in Italia?
Gandini: Possibile sì, ma certamente più difficile. Videocracy è prodotto con denaro pubblico svedese. Nei Paesi scandinavi il documentario non è considerato un genere di serie B, per capirci, viene trasmesso in prima serata sulle reti nazionali. In Italia invece molta parte di documentario sociale è autoprodotto.
Vita: Ha dichiarato: «Adoro l’anonimato, spero di essere dimenticato il prima possibile». Cosa rimarrà invece di Videocracy?
Gandini: Mi auguro che fra dieci anni lo si potrà guardare come un documento storico, e che si possa ripensare a com’era la televisione italiana. Col senno di poi si vedono le cose con tutt’altra lucidità.
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