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Se tuo figlio è un Hikikomori come lo aiuti?

«Il nostro è stato un incubo durato 12 anni», racconta l’attrice Lucia Sardo. «Nessuno ti dice che tuo figlio è un Hikikomori». Eppure in Italia sono circa 54mila gli studenti italiani di scuola superiore che si rifugiano nella loro stanza e tagliano i ponti con il resto del mondo. Tra i soggetti a cui rivolgersi, Gruppo Abele e Ciai

di Sabina Pignataro

Tapparelle abbassate, solo la luce azzurrina del computer sempre acceso, scambia il giorno per la notte, non si lava e ha coperto gli specchi. Con un temperino ha scavato una piccola feritoia sotto la porta, da lì una madre sempre più sofferente gli passa i pasti e cerca di capire chi sia suo figlio.
Ogni storia è a sé, ma le storie dei ragazzi Hikikomori somigliano parecchio a questa.

Un tema che abbiamo affrontato nel magazine di VITA di maggio, dal titolo “Gioventù bruciata” (disponibile qui).

In Italia sono circa 54mila gli studenti italiani di scuola superiore che si rifugiano nella loro stanza e tagliano i ponti con il resto del mondo (in una situazione di ritiro sociale). Lo certificano i dati del primo studio nazionale condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr è stata promossa dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada. che ha stimato a livello quantitativo l’isolamento volontario tra la popolazione studentesca.

Chi sono?

«Il fenomeno del ritiro sociale si sta diffondendo in modo sempre più articolato e variegato e, per questo, risulta sempre più difficile tracciare un profilo valido per tutti. In linea di massima si può comunque parlare di un fenomeno che, ancora oggi, è prevalentemente maschile, di ragazzi che non hanno disturbi specifici di apprendimento e che si ritirano dalla scuola e dalla società, in preadolescenza o adolescenza o all’inizio della giovane età adulta, perché sperimentano un senso di inadeguatezza e fallimento rispetto alle aspettative interiorizzate durante l’infanzia», osserva Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta presidente della Fondazione Minotauro (Centro clinico di consultazione e psicoterapia), psicologo, psicoterapeuta e tra i maggiori studiosi del fenomeno del ritiro sociale. «Lo sguardo di ritorno dei coetanei a scuola e la competitività serrata che la società adulta alimenta ogni giorno promuovono un senso di vergogna e di impresentabilità, che li spinge a ritirarsi e a suicidarsi socialmente, nel momento in cui bisognerebbe, invece, nascere socialmente».
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Perché si ritirano?

«I ragazzi e le ragazze che si ritirano sono persone in difficoltà e sofferenti, le altre definizioni servono agli adulti per liberarsi la coscienza dalle proprie responsabilità, dai modelli che ogni giorno a scuola, in famiglia e nei mass media proponiamo alle nuove generazioni», osserva ancora Lancini.

Colpa dei social?

«Sono convinto che internet sia uno strumento di difesa per loro. Né un nemico, né una causa», evidenzia l’esperto. «Sfido chiunque abbia incontrato almeno un ragazzo ritirato socialmente a non essere d’accordo con questa affermazione. Internet è una difesa, una forma di automedicazione, scongiura il rischio di un breakdown psicotico nel momento in cui il dolore è talmente pervasivo da non riuscire a essere espresso e dunque rischia di farti impazzire. Chi sostiene che sia la dipendenza da internet a impedire ai ragazzi ritirati di frequentare la scuola e il mondo o non ha incontrato un numero sufficiente di ragazzi e ragazze con questa problematica o è incapace di identificarsi con il dolore e il funzionamento affettivo, psichico e relazionale degli adolescenti che incontra».
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Meglio togliere internet?

«Chi toglie forzatamente Internet ai ritirati sociali, si assume una responsabilità enorme. In alcuni casi, sono certo, l’intervento privativo di videogiochi ed esperienze mediate da internet, da parte dell’adulto, ha contribuito ad un aggravamento, a volte drammatico, dello stato di salute mentale del giovane figlio, studente, paziente».

A chi rivolgersi?

«Il nostro è stato un incubo durato 12 anni – racconta l’attrice Lucia Sardo – intanto perché nessuno ti dice che tuo figlio è un hikikomori. Io l’ho scoperto cercando disperatamente in rete. Sono uscita dalla solitudine nella quale ero piombata quando ho conosciuto l’associazione “Hikikomori Italia Genitori onlus” . Perché, poi, il problema non è così palese; non è che c’è un figlio che ha una gamba rotta, sei lì a cercare una risposta a quel suo chiudersi sempre di più in sé stesso, a non volere più contatti con nessuno. Allora provi a motivarlo, cerchi di incentivarlo, ma niente, peggiori solamente la situazione. Quando capisci che non funziona ecco che arriva la rabbia, poi quando neanche questa ha efficacia provi con la dolcezza. È un’altalena di emozioni che ti può distruggere. Si potrebbe fare un film. Inoltre, quando tutto comincia non ne hai consapevolezza. Per questo dico che bisogna stimolare le scuole molto prima che i genitori».
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Il progetto specifico di Gruppo Abele

A Torino il progetto “Nove ¾” di Gruppo Abele supporta e sostiene i giovani hikikomori. Un educatore a domicilio aiuta i ragazzi a ritrovare la fiducia, e supporta i genitori che non trovavano risposta alla chiusura e all’isolamento dei loro figli. «Spesso il disagio si manifesta tra la terza media e il biennio delle superiori. Fondamentale lavorare con le scuole», spiega Milena Primavera, responsabile del servizio.
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Il gruppo per i genitori

Sei genitore o parente di un ragazzo con problemi di isolamento sociale? Nel giugno 2017 si è costituito ufficialmente l’Associazione “Hikikomori Italia Genitori”, aperta a tutti i genitori e parenti di ragazzi con problemi di isolamento sociale che desiderano sostenere la causa di Hikikomori Italia. L’obiettivo comune è quello di sensibilizzare le istituzioni al fine di ottenere maggiori diritti e servizi. Tale causa potrà essere perseguita – per chi lo desidera – anche attivandosi in prima persona in qualità di socio volontario.
Qui i contatti

Il progetto del Ciai

Il Centro Italiano Aiuto all’Infanzia-Ciai tramite i suoi Centri psicologici ed educativi Ciaipe, presenti in tutta Italia, segue genitori e figli – non solo adottivi – offrendo loro anche sostegno psicologico. «Ultimamente abbiamo notato che sono soprattutto i giovani a chiedere spontaneamente di avviare un percorso di psicoterapia per poter esprimere le proprie fragilità. Lo fanno specialmente attorno ai 14 anni, all’inizio della secondaria di secondo grado», osserva Paola De Cesare, psicologa psicoterapeuta del Ciaipe di Bari. «A generare il loro malessere non è più la paura di punizioni (della famiglia, della società, dei compagni, dei professori) ma il terrore di deluderli, la possibilità cioè di venire meno alle aspettative che gli altri nutrono nei loro confronti.
Questo talvolta li porta ad attivare un meccanismo di evitamento sociale, che nelle sue manifestazioni più estreme prende il nome di hikikomori: fondamentalmente è una strategia per evitare il giudizio dell’altro». Dinanzi a questo bisogno crescente, dal mese scorso Ciai a Milano ha avviato, con un finanziamento di Fondazione Cariplo, il progetto Attiva-Mente. Percorsi in rete, coinvolgendo ragazzi, ragazze, famiglie e una rete di scuole in partnership con l’associazione Contatto e l’Università̀ Bicocca e in collaborazione con la neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e il Centro psicosociale giovani dell’ospedale Niguarda. Darà supporto psicologico ai ragazzi con problemi di isolamento sociale e di attacchi al corpo che sono in attesa di accedere ai servizi di neuropsichiatria.

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