Non profit

Se Scambiamo il volontariato con il “sentirsi bene”

di Massimo Coen Cagli

E’ di qualche giorno fa un articolo pubblicato da Panorama dal titolo che suscita in me un certo interesse “Faccio del bene per sentirmi bene anche io”, articolo che, tuttavia, dopo poche righe, mi fa cascare le braccia non tanto per il  pressapochismo teorico dei contenuti ma perché (come spesso capita nella comunicazione a buon mercato)  tende a generalizzare fenomeni complessi in poche frasi slogan.

In sintesi il concetto espresso dall’articolo è che l’individuo moderno “altruista” (5 milioni di persone secondo l’ISTAT che usa il concetto più stretto di “volontario” o 22 milioni e più secondo un criterio più esteso di “genersoso” utilizzato da Astra ricerche) tende a fare del bene (volontariato, donazioni, donazioni di organi post mortem, carità, aiuto, ecc..) perché lo fa star meglio.  Lo chiamano, con grande fantasia: il “volontariato liquido” (povero Bauman, a vedersi brutalizzato così il suo concetto di liquidità…!), o “light” (ma quello pesante, non è mica dannoso come le sigarette!) o – immancabilmente – “2.0” (che fa fico di per sé).

Che l’altruismo faccia star bene, più che una stravolgente scoperta (tale da giustificare un articolo e un parlarci sopra) a me sembra che sia un postulato dell’individuo che, in quanto tale, non vada dimostrato. In effetti non ho mai visto un filantropo dare soldi con intenzioni masochistiche, né un individuo fare volontariato per stressarsi e complicarsi la vita!

In verità il “discorso” che da più parti si sta facendo sull’altruismo come forma di egoismo (ossia un atto rivolto a sé stesso piuttosto che agli altri) più che essere una trovata giornalistica è sempre più richiamato come chiave interpretativa di questo fenomeno alla luce della crisi economica e sociale che attraversa il mondo. Chiarire la motivazione di questo comportamento è essenziale per chiarire il senso che la donazione e quindi il fundraising possono avere oggi.

A fronte di un significato sociale o addirittura pro-sociale  di altruismo che è stato la chiave interpretativa della stagione della partecipazione, oggi va in auge, sulla scorta della tradizione migliore del pensiero debole, il significato di pratica tesa a creare nell’individuo una buona sensazione, uno star bene con se stessi. Un po’ come andare a correre tutte le mattine perché così stiamo meglio fisicamente. Una sorta di “wellness dell’anima”.

Se nella sfera individuale, tutto ciò non solo non è dannoso ma addirittura è consigliabile (interessanti gli studi di genetica circa l’orientamento biologico dell’essere umano all’altruismo), nella sfera sociale questo significato che conferiamo all’altruismo è fuorviante, minimalista e dannoso. Secondo il sociologo Finzi, intervistato da Panorama, questo comportamento è connesso anche con la crisi economica e con il calo delle donazioni. Il che rende tale fenomeno ancora più preoccupante: “Doniamo meno, facciamo un atto episodico di altruismo, così, spendendo meno, ci sentiamo meglio….”

Su questo ritengo che, soprattutto nell’ottica del fundraising, il non profit debba respingere questa linea interpretativa, altrimenti non si capisce cosa il mondo se ne faccia del fenomeno delle donazioni e del volontariato, perché debbano ritenere tutto ciò utile e necessario. Così ci resterebbe solo la carità e la “wellness dell’anima”, che esistono da sempre e hanno una loro autonomia dal fundraising e dal volontariato, ma che nulla hanno a che vedere con la dimensione sociale.

Questa interpretazione minimalista per altro risulta abbastanza offensiva per quei milioni di individui che donano tempo e danaro in una ottica di azione sociale e collettiva che è da sempre il tratto distintivo della società civile italiana che si auto-organizza per creare welfare di comunità.  E’ lo stesso minimalismo che vediamo spesso nelle campagne di fundraising (“un euro per la solidarietà: a te non costa niente…..”) o nelle campagne di sensibilizzazione on line (“Con un clik puoi fare una rivoluzione…”) e che porta a rendere l’impegno sociale un semplice atto virtuale e simbolico che paradossalmente sostituisce l’impegno sociale vero e lo rende marginale.

Ora proviamo a rileggere una dichiarazione riportata nell’articolo di Panorama alla luce di questa riflessione sull’altruismo:

«Intercettiamo l’altruismo di persone nel pieno della loro vita professionale. Portano freschezza e innovazione rispetto ai volontari continuativi, soprattutto casalinghe e pensionati» chiarisce Odile Robotti, presidente di Milanoaltruista. «Ci sono anche manager che si limitano a devolvere ai bisognosi saponcini e bagnoschiuma raccolti negli hotel durante i loro viaggi di lavoro. Li rende felici; ci dicono che li abbiamo aiutati a scoprire “i loro superpoteri”». 

Gulp!

Io da giovane facevo l’attivista (volontariamente) del Tribunale per i diritti del malato insieme ad una “milionata” di altri cittadini. E quando ci chiamavano i giovani volontari del Tribunale diventavo una furia. Perché i nostri donatori e volontari affermavano che  lo facevano “affinché non succedesse ad altri quello che è già successo a tanti cittadini che negli ospedali hanno visto calpestati i loro diritti”. Ossia con una motivazione pro-sociale e non certo per stare bene con se stessi. E infatti, grazie al cielo e grazie a loro, adesso nessuno più chiama con un numero o un nome di malattia un malato, si ha il diritto a vedere la propria cartella clinica, è obbligatoria la verifica della qualità dei servizi sanitari….

Che vi siano persone che vedono nell’altruismo una forma singolare di autoterapia psicologica non c’è nulla di male. Che questo sia lo schema motivazionale che guidi i 5 milioni di volontari, mi sembra una enorme fesseria!

 

 

 

 

 

 

 

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