Cultura

Se questo è un centro di assistenza.

Gabbie di recinzione, immigrati guardati a vista, minori allontanati dalle famiglie, controlli militari per chi vuole aiutare. Mancano ancora i decreti attuativi e i regolamenti.

di Federico Cella

L a sensazione, è disgustoso ma doveroso dirlo, è quella di trovarsi allo zoo. E non perché dall’altra parte della gabbia ci siano degli animali, ma proprio perché c’è una gabbia. E la certezza di essere dalla parte “giusta” delle sbarre la si ha soltanto quando ti rendi conto che a te i documenti li ridanno. Mentre loro, i ragazzi e le ragazze che si chiamano clandestini, rimangono lì. Siamo a Milano, dove da qualche anno è stato chiuso lo zoo ufficiale – quello con gli animali -, e dove, dall’inizio del ’99, è stato aperto il rinomato Centro di via Corelli, uno dei centri italiani di “detenzione temporanea”. Gli immigrati colti in flagranza di clandestinità, finiscono lì, in attesa di essere identificati ed espulsi. Non hanno commesso alcun reato se non il voler fuggire dalla disperazione a qualsiasi costo, eppure il loro carcere è il più duro.
Fa freddo questo pomeriggio di tipico grigiume milanese, e il gruppo di visitatori è scortato da un imponenete schieramento di Polizia. Forse si aspettavano che arrivasse qualche “autonomo” del Leoncavallo a far casino. Invece le più facinorose sono loro, due Madres de Plaza de Majo, sulla sessantina, una rappresentanza delle ex combattenti davanti alla Casa Rosada che va in giro a chiedere giustizia per tutti i desaparecidos senza nome del mondo. Documenti, appello, perquisizioni, tutti pronti: possiamo varcare le alte mura che dividono il mondo normale da quello che ufficialmente non c’è, che nessuno o quasi ha mai visto, che tv, radio e giornali sembrerebbero non conoscere. Il grande spiazzo dietro le mura ospita i container adibiti per i colloqui lampo (max tre minuti), e per accogliere i membri della Croce Rossa militare, gli angeli del focolare di Corelli che mantengono la gabbia pulita. Cinquanta metri più avanti c’è la gabbia, appunto, da cui spuntano le facce e le mani festanti dei 110 detenuti attuali, fra cui 40 donne.
«Voi vi fermate qui». Il tono dell’ispettore di Polizia non sembra di quelli cui si può ribattere. Ma le Madres sono abituate a ben altro, e subito sfondano il docile cordone: «Siamo qui, fateci almeno parlare con questi ragazzi, se proprio non possiamo entrare nella gabbia con loro». E così inizia il contatto. «Mio marito è morto, ho un figlio di quattro anni da nutrire, dovevo venire qui in Italia per fare un po’ di soldi. Invece adesso vogliono rimandarmi a casa. Gratis, dicono, ma senza soldi è inutile che ritorni». È una graziosa ragazza moldava che parla, in gruppo insieme ad altre tre compaesane, che se hanno più di diciotto anni, li portano molto bene. «Che lavoro vuoi che facessimo? Però ci hanno messe qui dentro subito, e adesso aspettiamo che ci riportino a casa. Ma torneremo, abbiamo bisogno di soldi, e voi qui ne avete parecchi». I molti denti d’oro fanno un po’ a pugni con la giovane età e il bell’aspetto, ma vengono mostrati come segno di ricchezza. «Gli avvocati? Mai visti, ma tanto non servono a niente».

In mostra come se fossimo animali
Intanto i ragazzi, alcuni davvero giovani, si accalcano sulle sbarre. Cercano il contatto delle mani, chiedono una parola di conforto, sapendo che tanto si tratterà solo di parole. Molti si mettono a piangere, altri approfittano del pubblico inaspettato: «Ci mettono dietro alle sbarre per mostrarci come degli animali, ma gli animali non siamo noi. Qui fa freddo, abbiamo chiesto un’altra coperta, ma non ce la danno; non abbiamo le scarpe, ma solo le ciabatte che ci hanno dato quelli della Croce». Le voci passano in rassegna, come le storie provenienti da vari Paesi. Ma non è una rappresentazione: «Da quando sono arrivato in Italia», ci racconta un ragazzo marocchino, che indossa una felpa scucita e strappata, «ho conosciuto solo case abbandonate, il carcere e poi qui, che in assoluto è il posto peggiore. Vi sembra civile questo?».
Di umore opposto, e questo fa ancora più pensare, è invece una ragazza nigeriana, rapata a zero: «Io qui sto benissimo, sono in Italia da otto anni e non ho mai trovato niente di meglio, né per me né per mio figlio. Qui almeno ci sono le medicine, c’è da mangiare. Credo che piangerò quando mi porteranno via. L’unico dispiacere è per il mio bambino, so che è a Milano, affidato a qualcuno in custodia».
La riprende un uomo biondo, di bella presenza, come si suol dire; è uno dei pochi adulti del Centro, viene dal Kosovo, ma in tempi “non sospetti”: «Cosa stai dicendo? Come fai a essere grata di essere qui?». Tutti gli fanno spazio, perché tutti hanno rispetto di lui e della sua storia assurda: «Sono arrivato in Italia nel ’94 con regolare permesso di soggiorno, per lavorare. Poi ho perso il lavoro e non sono più riuscito a rinnovare il permesso, e un giorno mi sono trovato in mezzo a una retata. Adesso sono qui, ma io ho la patente italiana, mi sento e sono italiano. Però posso solo aspettare che mi facciano uscire per tornare in Kosovo. Dove io non ho più niente, dove non c’è più niente».
«Va bene, adesso basta». La voce dell’ispettore questa volta non ammette davvero repliche. Ci congediamo, fra vari “Torneremo “ e “Grazie comunque”. Arriva il Capitano della Cri, presente in Corelli fin dalla sua prima apertura, e ci scorta fino all’uscita: «Noi siamo qui per garantire il rispetto della Convenzione di Ginevra. Questo posto è troppo chiuso», racconta, una volta assicuratosi dell’anonimato, «bisognerebbe invece aprirlo, per mostrare che non c’è niente da nascondere. Quest’estate abbiamo organizzato delle serate danzanti, delle anguriate. Certo, qui non si sta certo bene, però a Corelli sono anche nati degli amori: qualche mese fa un ragazzo arabo e una ragazza ucraina hanno anche chiesto il permesso di sposarsi». Belle storie, che però non sono sufficienti a sollevare il velo d’angoscia. Anche perché è arrivato il momento delle cifre. «Fino al 30 settembre sono stati 2.096 gli “ospiti” di questa struttura, e di questi 1.084 sono poi stati espulsi». E gli altri 1.012? «Beh, probabilmente quelli non dovevano essere espulsi: magari erano minorenni, oppure donne incinta, o magari non c’entravano niente». Magari?!
Le porte si richiudono, siamo di nuovo nel mondo normale, certi che nessuno potrà avere a breve un nuovo contatto con questi “alieni”, a parte le quattro associazioni che si alternano per offrire un po’ di servizi. Fra queste, la Ya Basta, uno dei collettivi del centro sociale Leoncavallo, che insieme alle realtà torinesi di Punto Zip e Senza Frontiere stanno lavorando ad alcuni progetti di riqualificazione del soggetto migrante. Una riqualificazione che sembrerebbe più dover riguardare lo Stato Italiano. «Il problema è che bisogna uscire da questa logica del controllo del flusso migratorio. Corelli non serve a niente, se non come deterrente per le altre persone che vogliono venire in Italia», riporta Bruno Menotti di Ya Basta. «È assurdo che un Paese come l’Italia, che conta decine di milioni di emigrati in tutto il mondo, neghi così la propria storia recente. Il diritto alla migrazione è un diritto che deve essere riconosciuto a tutti. È per questo che stiamo lavorando per creare un database degli immigrati, per dare un volto e una voce a questa gente, che viene invece tenuta appositamente invisibile. In questo modo si alimenta lo sfruttamento, si creano sempre nuove vie per il business dei mercanti di uomini».

Un appello per farli chiudere
Il Centro di via Corelli, così come quello di Ponte Galeria a Roma e il Brunelleschi di Torino, e i prossimi che verrano creati a La Spezia, a Bologna, a Parma, a Brescia, etc., sono nati in base all’articolo 14 del D.Lgs 286: lo Stato italiano prevede la creazione di “centri di permanenza temporanea e assistenza”, luoghi dove gli stranieri extra Cee privi del permesso di soggiorno vengono detenuti nel caso non sia possibile provvedere immediatamente alla loro espulsione. I tempi quindi variano, anche se il massimo d’attesa non dovrebbe superare i 40 giorni; ma a circa un anno dalla data del provvedimento, mancano ancora i decreti attuativi, il che vuol dire che in questi centri non esiste un regolamento interno. Una situazione anticostituzionale, quindi, che ha smosso decine di personalità ad aderire all’appello lanciato la scorsa settimana, fra gli altri, anche da Marco Revelli, nostro editorialista, dagli artisti Lella Costa e Moni Ovadia, dal sociologo Alessandro Dal Lago, per una loro chiusura. L’indirizzo di posta elettronica per aderire è: semir@libero.it.

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