Famiglia

Se lo sharenting entra negli accordi di divorzio

Chiara Ferragni e Fedez d'ora in poi potranno postare foto di Leone e Vittoria solo con il permesso dell'altro genitore. Lo sharenting caratterizza il nostro modo di essere madri e padri oggi e Davide Cino, ricercatore in pedagogia della Bicocca, è stato il primo a studiarlo. «Le foto dei figli sui social diventano spesso motivo di conflitto perché ognuno dei due vuole "avere il controllo". Ma il piano resta sempre quello degli adulti. Il salto da fare è chiedere l'opinione dei figli», dice

di Veronica Rossi

Chiara Ferragni e Fedez al lancio della serie The Ferragnez, dicembre 2021

Cambiano le regole per i bambini più instaggrammati d’Italia: secondo l’accordo di separazione e contestuale divorzio firmato da Chiara Ferragni e Fedez, i due ex coniugi dovranno chiedersi reciprocamente il permesso per pubblicare online le foto dei figli. Dell’immagine dei loro bimbi i due avevano fatto quasi un brand, raccontando ogni dettaglio della loro vita. Le due celebrità, tuttavia, non sono i soli genitori a condividere sui social fotografie ed episodi della loro quotidianità, anzi. Si tratta di un fenomeno talmente diffuso che ha un nome: sharenting. Il primo a studiarlo in Italia è stato Davide Cino, ricercatore in pedagogia generale e sociale all’università di Milano-Bicocca.

Esattamente come e perché nasce il fenomeno dello sharenting?

Il nome nasce dalla crasi tra i termini share e parenting, quindi è fondamentalmente una condivisione della genitorialità, attraverso storie, video, foto, rappresentazioni di varia natura che riguardano o ritraggono in prima persona anche i figli. È un fenomeno ormai largamente diffuso, che riguarda tutti i membri della famiglia. È vero che c’è di base una connotazione di genere – le mamme tendono a condividere di più – ma col tempo è diventata meno netta.

E da cosa si origina il fenomeno?

Non si tratta di qualcosa di nuovo. Si tratta di un prolungamento del cosiddetto “album di famiglia”. A partire dalla fine dell’Ottocento, sono arrivate le prime macchine fotografiche accessibili anche alle persone comuni, che possono quindi farsi foto senza la mediazione di professionisti. I bambini sono sempre stati al centro delle foto: ed è questo il motivo per cui sono state le donne, che passavano più tempo a casa con i figli, a farle e ad assemblare gli album.

Poi però è arrivato internet e il fenomeno si è allargato.

Nel momento in cui l’intera società e l’intera vita delle persone si digitalizza, anche l’album si è digitalizzato. Oggi parliamo di sharenting in riferimento ai social media, ma in realtà già nei primi tempi di internet – già alla fine degli anni ‘90 – in particolar modo in Nord America avevano iniziato a diffondersi i siti familiari, in cui si caricavano racconti e fotografie della famiglia. È quindi un fenomeno che ha una lunga storia.

A differenza dell’album di famiglia però ora chiunque può vedere le fotografie e manca il controllo su di esse.

Dipende, perché comunque non dobbiamo dare per scontato che le condivisioni avvengano sempre in maniera pubblica. Sappiamo che i genitori hanno approcci differenti alla condivisione. Ci sono famiglie in cui i membri hanno maggiori competenze digitali, quindi possono essere in grado di festire meglio il pubblico di riferimento tramite apposite impostazioni della privacy. In altri casi, invece, la pubblicazione è aperta a 360 gradi e quindi effettivamente sono alla portata di tutti. Quindi non farei una generalizzazione tout court. Se c’è un cambiamento molto significativo, questo ha a che fare con i confini spazio temporali delle foto: un tempo per mostrare le immagini dei figli bisognava trovarsi insieme. Ora chiaramente è tutto molto più flessibile perché quello che viene pubblicato online può essere visto da un pubblico maggiore rispetto a quello che potevamo ospitare noi a casa.


Lei quindi pensa che questo fenomeno, di cui forse i “Ferragnez” sono l’esempio più eclatante, non meriti quella condanna allarmata che solitamente gli riserviamo?

Io non ho una visione né positiva né negativa. In quanto ricercatore non spetta a me dire se è giusto o sbagliato. Credo ci siano delle differenziazioni da fare e credo che si faccia spesso confusione tra lo sharenting, come pratica di vita quotidiana in cui le famiglie condividono delle foto con pubblico più ampio di quello che potrebbe essere offline e le declinazioni più commerciali relative all’utilizzo delle immagini dei propri figli. Questo chiaramente è un altro discorso, perché qui sì che si punta esplicitamente ad avere un pubblico più ampio e differenziato possibile, perché questo consente di aumentare l’engagement e di aumentare quindi il guadagno. Ma si tratta di due fenomeni chiaramente differenti.

Ma anche lo sharenting ha i suoi rischi.

Ovviamente, ma ormai ne siamo consapevoli. C’è un dilemma che le famiglie vivono: si pongono degli interrogativi sulla condivisione e sulla gestione dell’identità della prole. Viviamo in una società che ci invita costantemente alla condivisione e di conseguenza c’è una sorta di pressione e aspettativa, ma c’è chi si pone in maniera critica su questo. Probabilmente una chiave di lettura interessante potrebbe essere quella di mettere al centro la prospettiva dei bambini: come si sentono? Come potrebbero sentirsi in riferimento alle rappresentazioni che vengono fatte di loro? Le ricerche ci mostrano che laddove si creano delle conflittualità tra genitori e figli, generalmente questi ultimi tendono a chiedere la rimozione dei contenuti e generalmente vengono accontentati. Questo di solito accade in preadolescenza o in adolescenza quando i ragazzi iniziano a voler essere loro gli artefici della loro immagine digitale.

Nel caso di genitori separati, come ora accade per Chiara Ferragni e Fedez, questo tema diventa un motivo ulteriore di conflittualità?

È un elemento di conflittualità che si verifica in molte occasioni e che dimostra quanto il tema della condivisione online sia del tutto incorporato nelle nostre vite quotidiane. Diventa tema di conflitto nel momento in cui due genitori si separano, perché entrambi vogliono avere il controllo rispetto a quanto dei propri figli finisce online. Talvolta, penso, può diventare anche strumentale: magari fino a prima della separazione le foto dei figli venivano condivise senza nessun tipo di problema, poi invece sembra che ci sia una sorta di risveglio rispetto al tema della privacy. Il conflitto, però, può esserci anche con altri membri della famiglia, spesso anche tra genitori e nonni. Spesso ci sono delle situazioni in cui soggetti esterni alla famiglia nucleare ristretta pubblicano foto di minorenni. L’obbligo di chiedere il consenso per la pubblicazione ci dimostra anche però come di frequente la discussione rimanga tra adulti.

Torniamo lì, al fatto che nessuno chiede l’opinione dei figli, prima di postare le loro foto?

La domanda che mi pongo è: qual è il posizionamento dei figli, le cui immagini vengono condivise online? Ci sono dei momenti della vita, quando i bambini sono piccolissimi, in cui non hanno ancora la capacità di comprendere il fenomeno: poi cominciano a crescere e questo tema per loro diventa cruciale. Sarebbe importante capre anche il loro punto di vista. Dopotutto si tratta delle loro immagini.

Sembra essere un discrimine fondamentale l’educazione digitale dei genitori e le loro competenze in fatto di gestione della privacy.

Le competenze digitali sono importantissime, hanno a che fare con la gestione dei possibili rischi, che – preciso – non si traducono necessariamente in danni. Le ricerche ci mostrano, anzi, che questo avviene molto raramente. I possibili problemi non vanno trascurati, ma non sono sicuramente all’ordine del giorno. Sicuramente, però, le competenze digitali per gestire la condivisione sono fondamentali: i contenuti online, se non si prendono i giusti accorgimenti, rimangono online e possono essere ripresi da chiunque. C’è però un altro discorso, ancora più importante: considerare la capacità di scelta dei minorenni, la cui vita viene raccontata e condivisa sui social. Da un lato, quindi, lo sharenting non è una pratica che mi sento di condannare, anche perché è fatta tendenzialmente in buona fede, dall’altro, tuttavia, dovremmo domandarci come il nostro comportamento digitale può impattare su un’altra persona. Si tratta di creare una sorta di solidarietà e dialogo intergenerazionale.

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Foto Gian Mattia D’Alberto, LaPresse

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