Famiglia
Se la speranza è una lucciola
Si chiama Christine, è una prostituta di lusso. Ma cerca il riscatto, così...
di Paul Ricard
Quando era bambina sognava di fare l?attrice, calcare le scene del Muncipal di piazza Floriano Peixoto, indossare abiti candidi e ricevere fiori e applausi, tanti applausi. I soldi no, a quelli Christine non pensava. Le bastava guardare il teatro dalla finestra di casa e tutte quelle persone sulle macchine americane, a loro volta osservate da una folla in silenzio. Soprattutto bambini, tanti bambini, che a bocca aperta godevano di uno spettacolo speciale, sempre uguale, ma irraggiungibile.
E invece, come niente, Christine si era ritrovata a fare la puttana. La prima volta era stata quattro anni fa, se lo ricordava bene. Erano amici di amici di una sua amica. Guidavano Mercedes scoperte, usavano telefonini che allora erano grandi come ferri da stiro, indossavano abiti italiani. A cena pagavano sempre loro.
Da Claude Troisgros, il ristorante francese di Leblon, avevano un tavolo fisso. Forse per quel pacchetto di cruzado uno sull?altro che lasciavano sotto al piatto. Anche se l?inflazione era alle stelle, erano comunque un mucchio di soldi. Poi tutti da Help, la discoteca di Capocabana in cui si mescolavano turisti e mulatte, giovani bene e gringos, studentesse come lei e magnaccia. Come loro. «Cerca di essere carina, dopo», le aveva detto Susana, calcando sul «dopo». Cosa sarebbe successo dopo, lo sapeva anche lei. Quello con l?orologio d?oro erano giorni che non le toglieva gli occhi di dosso. E dopo c?era stata la corsa fino all?appartamento di Barra de Tijuca, la zona bene di Rio. Mobili firmati, whisky irlandese, sesso brasiliano, sudato e umidiccio. Al mattino, poi, sorrisi stereotipati, scambi di numeri di telefono e una sopresa che Christine aveva trovato nella borsetta mentre aspettava il taxi che la riportava in centro: una montagna di cruzado, poco romantici e molto volgari. Non le era costato nulla , quando alla fermata del taxi le si era avvicinato un bambino dagli occhi neri e grandi, fargli scivolare una banconota. «Obrigado», le aveva detto, in risposta a quell?elemosina, prima di scappare su, verso la collina di catapecchie e fogne all?aperto.
Su, verso Rossinho, una delle centomila favelas di Rio, appena dietro i quartieri bene, quasi non ci fosse una linea di demarcazione. Se non quella data dai soldi. Da allora sono passati 4 anni, il cruzado è diventato reais, è cambiato Presidente, qualche scandalo c?è sempre; adesso tocca ai militar police, che hanno massacrato un mulatto per niente, in una favela e Christine, ufficialmente hostess, continua a fare la puttana a tempo pieno.
Solo nei grandi alberghi, a trecento dollari a notte. Più la cena. E la percentuale per i meninos, così uguali a quel bambino con gli occhi neri perso in una città dove se hai meno di dieci anni scomparire non è nemmeno una notizia. «Non so nemmeno io come sia iniziata… Sì, la storia dei bambini», dice Christine, bionda scura, vestito bianco corto, occhiali neri seduta in uno dei tanti baracchini che circondano la città, lungo le spiagge da cartolina.
«Non so, credo sia l?elemosina; forse penso che anche loro abbiano diritto di vivere…», dice semplicemente. Come se fosse facile vivere davvero in una città che sembra sempre sul punto di esplodere, dove ci sono gli squadroni della morte, dove se non paghi il biglietto dell?autobus, come è capitato a quei cinque meninos, finisci con un buco nella nuca e al massimo un trafiletto sul giornale.
Il cellulare ultrapiatto americano di Christine è spento, adesso. Lo accende solo alla sera. Quando chiamano i clienti, dopo aver visto la sua foto e tutto il resto nel book dell?agenzia. Però a lei piace di più lavorare da sola, senza intermediari. C?è sempre qualcuno, amico di amico, che vuole un appuntamento, «magari per fare quattro chiacchere o mangiare qualcosa…», come dicono tutti, anche se lei sa bene cosa vogliono.
Prima al ristorante; è la regola. Locali di classe, gente discreta e soprattutto camerieri che ormai la conoscono bene anche se non la salutano mai, per evitare imbarazzi a quell?altro, quasi sempre diverso. Storie da niente, e 300 dollari in tasca. Anche le mete sono sempre quelle, si va da Mola, o da Cuia, a Copacabana. Da Marius o da Brambini a Leme, appena sotto al plan d?Auscar che domina la baia. Oppure nei ristoranti italiani più famosi di Rio, Grottammare, Margutta, a un tiro da Ipanema. Ordina molto Christine. Spesso tutto quello che c?è in lista, dagli appetizer fino al dessert. Molta carne e molto pesce, anche se poi mangia appena, giocherella con la forchetta come gioca con i pensieri dell?uomo che le sta di fronte. Alla fine, quando arriva il conto, è naturalmente lui che paga.
Per tutti e due e soprattutto per i meninos che lui nemmeno conosce. Che anche questa notte aspettano il passo lieve di Christine, con la borsetta e le vaschette di plastica del ristorante preparate direttamente in cucina, con la carne e il pesce e i fagioli; il pimento e la verdura e l?illusione che un giorno tutto possa finire e che rua Barata Ribeiro o avenida Viera Soulo tornino a essere solo strade e non il pozzo della vita di bambini che hanno dieci anni, forse meno, e nulla di più.
«Obrigado», le dicono Flavio, Teresa, Manuel, volti scuri della strada, quasi uno sbaglio per Rio de Janeiro. «Obrigado», le ripetono mentre aprono i sacchetti e tuffano le mani dopo essere stati investiti di mille odori, così diversi dal gas delle auto o dallo smalto dei sacchetti che ogni tanto qualcuno annusa ancora. O dall?odore di una città in crescita verticale che ha perso per strada mille, diecimila, cinquantamila bambini come se fossero inevitabili scorie di uno sviluppo impazzito.
«Lo so che non serve a niente quello che faccio», taglia corto Christine che di Vivario e dei mille programmi per mettere una pezza a questa città ferita ne ha appena sentito parlare. Sociologi, urbanisti, economisti, intellettuali da decenni sognano progetti faraonici per chiudere il Rossinho e rimettere in sesto il Vigario general.
Si fanno convegni e si stanziano soldi per fare altre conferenze: si studia e non succede mai niente.
«Però essere immobili serve ancora meno», si dà una risposta Christine. Magari un giorno ci sarà un?alternativa più concreta ai suoi vassoi pieni di speranza, magari qualcuno troverà una bacchetta magica capace di portare a un futuro diverso i bambini di strada. Nell?attesa, lei non si ferma.
Dietro all?avenida Atlantica, dietro a Leme, Botafogo, Ipanema risuoneranno chissà per quanto ancora i suoi passi. Fino alle piazze, gli angoli spesso bui dove c?è sempre un menino con gli occhi neri, che le sorride e la ringrazia.
L’opinione di Ernesto Olivero
Ma non basta la buona azione
Non voglio entrare nella coscienza delle persone, quindi non voglio giudicare il gesto umano di Christine, ma in ogni caso non credo che questa possa essere considerata una storia esemplare: lavoro per bambini di strada notte e giorno e credo che si debba e si possa dare loro un?alternativa. Noi del Sermig abbiamo appoggiato parecchi progetti in Brasile fra cui quelli di Casa Vida a San Paolo, la comunità che accoglie i bambini abbandonati sieropositivi o malati di Aids di Padre Julio Lancellotti e, anche se sembra impossibile, alcuni di loro si sono salvati. Ritengo che l?unico modo per dare una vera alternativa alle migliaia di bambini di strada brasiliani sia trovare uomini e donne disposti a un gesto di amore per toglierli dalla strada, dandogli una famiglia e un?educazione. I bambini di strada non sono un problema, ma la soluzione all?egoismo dell?umanità: bisogna seminare il mondo di comunità alloggio che li sottragga all?abbandono e offra loro un futuro, e bisogna fare in modo che entrino nella nostra vita di tutti i giorni per impedire che continuino a rappresentare carne da macello per la delinquenza e lo sfruttamento sessuale. Si deve pensare ai piccoli, ma non solo: perciò nella più grande megalopoli brasiliana, a San Paolo, abbiamo fondato l?Arsenale della speranza che accoglie 50O persone ogni giorno, anziani e bambini.
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