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Se la politica fosse…

Se la politica fosse un "agire disinteressato per il bene della collettività", sarebbe opportuno che fossero elette persone che nelle comunità da cui provengono hanno un ruolo riconosciuto e riconoscibile e che hanno esperienza di cosa significhi fare "il bene della propria collettività", ascoltarne i bisogni, interpretarne i desideri, motivarne i cambiamenti

di Pietro Piro

Se la politica fosse "arte o scienza di governo" e in particolare, quell'insieme di attività che riguardano la scienza dello Stato, allora, di fronte a una così complessa "dottrina", pochi si sentirebbero all'altezza di dedicarsi anima e corpo ad azioni "come il conquistare, il difendere, l'ampliare, il rafforzare, l'abbattere, il rovesciare" il potere statale. E' evidente che si tratta di un ambito delle azioni umane che ha delle enormi ricadute sulla collettività e chiunque non sia un pazzo o un invasato, di fronte a un così arduo compito, proverebbe un certo timore nel proporsi come protagonista di tali azioni.

Se la politica fosse l'insieme delle azioni che garantiscono allo Stato "l'esercizio legittimo della violenza, della coercizione e della limitazione della libertà altrui", ci si sentirebbe subito in soggezione nell'esercitare un tale potere sugli uomini, con il rischio di poter mutilare quanto di più prezioso la vita ci ha donato: la libertà e l'indipendenza. Una persona "normale", fortemente orientata alla vita, si sentirebbe certamente a disagio nel gestire un uso "legittimo" della forza fisica. Al contrario, una persona repressa, spiritualmente limitata, immediatamente capace di "evocare un generale in Lui", che senta questo potere come ciò che manca alla sua personalità per essere completa, potrebbe trovarlo piacevole e sommamente necessario. Allora, il rischio di una "deriva autoritaria" potrebbe diventare palpabile, soprattutto se questa malattia del carattere, questa "passione per la morte", riguarda un numero molto alto di persone a cui il potere è stato affidato. A chi affidare questo potere così rischioso? E' possibile non procedere con molta cautela? La "scelta" è in questo caso terribile e delicata e nessuno saprebbe vivere con leggerezza un così enorme potere (sempre che non si tratti di un violento usurpatore, un Forestaro dagli occhi "assetati di sangue").

Se la politica fosse la sfera dei rapporti tra "amico e nemico", sarebbe necessario eleggere – per la nostra serenità collettiva – persone che hanno dato prova di sapere "costruire ponti" piuttosto che "innalzare muri". Persone capaci di dialogare con tutti, aperte, operose, generose, sensibili. Persone che abbiano vissuto esperienze di cooperazione, di risoluzione dei conflitti, di fratellanza. Sarebbe conveniente per tutti eleggere "costruttori di pace" docili e mansueti, prudenti e rispettosi. Dovremmo provare una certa naturale diffidenza per tutti quelli che propongono soluzioni che escludono, che creano gerarchie tra gli uomini, che impongono nuovi confini e parlano di "espellere" invece che di "includere". Sarebbe opportuno eleggere persone che hanno rifiutato radicalmente la violenza e che sentono l'articolo 11 della Costituzione come un "faro" della loro vita.

Se la politica fosse l'ambito delle azioni umane in cui "il fine giustifica i mezzi" e dove "ciò che è lecito è diverso da ciò che è morale", sarebbe necessario eleggere persone che siano in grado di giungere a una sintesi tra "l'etica delle convinzioni e l'etica della responsabilità". Persone che sappiano realizzare una sintesi feconda tra obiettivi da raggiungere ed etica necessaria per mantenere vivo il rispetto tra gli uomini. Ma in un epoca così complessa, con "troppi mezzi per scarsi e rachitici fini" non è sempre più difficile incontrare persone che siano in grado di una mediazione tra gli interessi personali e il bene comune? Tra l'ambizione di potere personale e le "attese della povera gente"?

Se la politica fosse "servire un ideale", dovremmo incontrare spesso persone in grado di "dare ragione della propria Speranza" , capaci di dialogare "con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza", fermi e decisi nelle proprie convinzioni ma pronti a sacrificare tutto per realizzare i propri sogni. Questi "idealisti" dovrebbero andare "casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini". I risultati elettorali e la conquista di un seggio al parlamento non dovrebbe scalfire minimamente la loro "militanza" il loro servizio. Nessuno dovrebbe rammaricarsi di dover fare spazio ad altri idealisti, perché il servizio di un ideale non dovrebbe mai dipendere dallo stipendio che lo Stato garantisce ai suoi Onorevoli e Senatori.

Se la politica fosse "servizio per gli ultimi", dopo un solo mandato elettorale passato a contatto quotidiano con la miseria, l'emarginazione, l'ignoranza, la malattia, l'esclusione, ci si sentirebbe "sazi" della propria azione ben svolta e si lascerebbe volentieri il proprio posto ad altri per permettere che persone più fresche e più cariche di nuove energie possano continuare nell'azione intrapresa. Chiunque abbia passato anche una sola settimana a contatto con "gli ultimi", sa quanto è difficile e usurante e come la stanchezza e lo sconforto siano difficili da superare senza una grande volontà e l'aiuto di altri.

Se la politica fosse un "agire disinteressato per il bene della collettività", sarebbe opportuno che fossero elette persone che nelle comunità da cui provengono hanno un ruolo riconosciuto e riconoscibile e che hanno esperienza di cosa significhi fare "il bene della propria collettività", ascoltarne i bisogni, interpretarne i desideri, motivarne i cambiamenti. Se fosse un "agire disinteressato" a motivare l'azione, nessuno sarebbe attratto dal denaro, dal prestigio, dalle posizioni d'influenza, dallo scambio di favori, dalla logica clientelare, dalla corruzione. Nessuno vivrebbe come dramma la sua mancata elezione perché oltre ad avere un lavoro che ama, una famiglia che lo sostiene, una comunità che lo ammira, una dottrina che ne nutre l'intelletto, saprebbe che prima o poi altri – anche migliori di lui – potranno "agire in maniera disinteressata anche per il suo bene".

Se la politica fosse "un sistema in cui è prevista l'alternanza, in cui un Partito (o più partiti) sono al governo e un altro (o altri) sono all'opposizione", nessuno dovrebbe preoccuparsi di passare dal Governo all'opposizione. Significa "che rispetta le regole del gioco" e che crede nel sistema politico parlamentare. Come ha scritto Norberto Bobbio l'opposizione è necessario non soltanto che ci sia e che eserciti la propria funzione ma anche quella di "diventare, per abilità o fortuna, il nuovo governo". E come ha scritto Giuliano Amato i nostri costituenti non hanno pensato un sistema caratterizzato da una opposizione eversiva e neppure a una democrazia consociativa. L'alternanza dovrebbe essere normale e proficua per un Paese che crede nelle sue Istituzioni e non un immenso psicodramma che da vita a faide intestine ai Partiti e a scontri tra Partiti diversi in cui si perde totalmente di vista "il bene comune".

Se la politica fosse "intelligenza e passione", ragionare tra avversari sarebbe facilissimo. Ognuno proporrebbe le risposte migliori a problemi concreti e gli altri essendo appassionati ed intelligenti, riuscirebbero a riconoscere subito quanto di "vero, bello e giusto" c'è in una proposta. Indipendentemente da chi la propone. L'intelligenza come capacità di "leggere dentro" dovrebbe essere lo strumento più utilizzato in politica.

Se la politica fosse tutte le cose di cui ho parlato fino a questo momento – è probabile che sia tutt'altro e chi scrive è uno sprovveduto – la "selezione della classe dirigente" dovrebbe essere severissima. Se chi decide di dedicarsi alla vita politica avesse chiaro sin da subito che si tratta di maneggiare uno dei "poteri" più pericolosi che l'uomo è stato in grado di esercitare sugli altri uomini e se avesse veramente l'umiltà e il coraggio di guardare dentro se stesso, ci sarebbe una "selezione naturale" molto più forte di quella tradizionalmente esercitata dai Partiti o dai corpi intermedi.

Se la politica fosse "la Politica" la persona normale dovrebbe provare un senso di timore profondo di fronte alla conseguenza delle proprie azioni e di fronte alla ricaduta collettiva del proprio pensiero. Non potrebbe fare altro che "tremare" per il peso della responsabilità assegnatagli, per la limitazione della propria libertà, per il rischio di perdere la fiducia della comunità a cui appartiene, per il sacrificio di affetto e cure a cui la propria famiglia sarebbe sottoposta a causa dei mille impegni. Forse, prima di candidarsi, ci penserebbe mille volte.

Se la politica fosse "ansia di un'altra città" sarebbe bellissima e invece…..

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