C’è qualcosa che non torna nelle scelte di investimento dei fondi etici del tipo: niente armi, niente tabacco. Mi rendo conto che tale selezione non è la sola, che c’è pure il rating etico complessivo. Vorrei qui limitarmi a criticare la selezione merceologica negativa. Essa rivela un contenuto del comportamento etico un po’ da struzzo: ciò che non mi piace me ne tengo alla lontana. Mi pare un lavarsi le mani, not in my name, not in my backyard, un dribblare la questione dell’essere etici ed entrare nel merito del problema.
È come se ci fosse una classifica di cui è difficile ordinare chi vince, ma è chiarissimo chi sta in zona retrocessione: armi, tabacco, giochi d’azzardo, organismi geneticamente modificati. Non mi risulta ci siano indicazioni in proposito dai grandi della filosofia morale. Mi pare una mala lettura dell’imperativo kantiano: se io non uso armi, che non le usi nessuno. E i buoni chi sono: le televisioni Italsex, i salumai colesterolici, i car maker rombanti?
Nello specifico delle armi, il passaggio dall’etica individuale (micro) all’etica (macro) della azienda sembra essere: «Quinto: Non ammazzare. Ergo non finanzio armi». Si ammazza con molto meno. Ci vuole molto di più di un’arma per ammazzare. Ci vuole la rabbia. Ci vuole un motivo. Tibullo stesso si imbarca in un ragionamento in cui se la prende col costruttore primo delle spade per arrivare alla conclusione che è colpa nostra se abbiamo rivolto contro noi stessi ciò che il costruttore di armi ci aveva dato per difenderci dalle belve feroci. E fa piacere che vi sia qualcuno autorizzato a portare armi (non io stesso, ma una terza parte) quando incontro in città certi ceffi muniti di bottiglia di birra, inneggianti magari a qualche club calcistico (non che gli spiritati occhi verdi del ministro della Difesa pro tempore siano rassicuranti, ma questa è un’altra faccenda). L’arma è la base del diritto. Il passaggio dalla forza bruta alla forza ragionata dell’arma conferisce senso al diritto.
Chi si interessa di un business critico, cerca di esserne informato. È la vecchia opzione se criticare il sistema dal di dentro o dal di fuori. Sarebbe quindi carino parlare in pubblico di Finmeccanica (aerospazio, armi) che secondo il Rapporto MET 2009 si becca – alla chetichella – il 30% degli incentivi di Stato alle imprese.
Lo Stato sta con tutti e due i piedi nel business del vizio, ma così facendo ha eroso terreno alla malavita nel campo delle scommesse (e un po’ ci convive). Su altri business fa anch’esso politiche di struzzo, come ha detto Tinto Brass su Vita: «Si fanno leggi contro le puttane, ma non contro le escort», che sono l’alto di gamma dello stesso business. Certo c’è un effetto di dipendenza della domanda dalla offerta, per cui il consumo di certe cose dipende dalla disponibilità della offerta di quelle cose stesse. Ma il proibizionismo crea più profitti illeciti (e quindi costi sociali ad essi associati) di quanti ne limiti.
Nel passaggio dal micro al macro occorre declinare l’etica chiedendosi qual è la risultante aggregata della irresponsabilità individuale. Il rating etico deve tenere conto del core business dell’azienda. Sul caso delle tariffe più alte d’Europa per i telefonini italiani (26 settembre 2009): che mi vale una politica di impatto ambientale zero, se sto spremendo i clienti? Si dirà che delle tariffe si occupa il rating canonico, il rating etico misura altro. Non credo che sia giusto così: il rating etico deve misurare la eticità della risposta al problema di core business, altrimenti rimane alla periferia della economia. E dell’etica.
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