Non profit

Se l’uomo è cosa tra le cose

Si sente nell'aria una resa di fronte all'insostenibile riduzione dell'essere umano a puro calcolo egoistico.

di Giuseppe Frangi

Non dimenticheremo facilmente le immagini dei padri, delle madri e dei bambini di Beslan. Non dimenticheremo quegli esili corpi nudi che scappavano dall?inferno, quelle braccia immense che stringevano con tenerezza i figli scampati come quelli invece uccisi. Non dimenticheremo le lacrime versate su quelle fila di bare aperte e allestite con un amore che ormai ci è ignoto. Non dimenticheremo la luce di quelle flebili candele, mosse dal soffio di preghiere appena sibilate. Non sarà facile dimenticare neppure la crudeltà inaudita che si è consumata venerdì 4 settembre tra le mura della scuola 1 di Beslan. Possiamo solo immaginarla, facendo leva su quegli spezzoni drammatici che sono le parole dei superstiti. Testimonianze che s?accavallano e s?annodano in un grido di dolore che sembra infinito. Ma a queste immagini difficili da cancellare dalla mente, resta incollata anche una domanda tremenda: perché? Perché l?uomo può toccare abissi come questi? Perché il male può invadere in modo così devastante la scena della storia? E poi, soprattutto, possiamo dirci immuni dai tentacoli di quel male? La tragedia di Beslan porta con sé un qualcosa di troppo, di sovradimensionato rispetto alle nostre capacità di sopportazione. Ed è forse per questo che venerdì sera, dopo che i telegiornali avevano riempito le case con quelle immagini arrivate da un?oscura cittadina dell?Ossezia, c?è chi ha pensato che non fosse il caso di cambiare la programmazione e di andare avanti come nulla fosse con il cinguettìo vagamente idiota dei normali palinsesti. Peccato veniale, certamente. Il peccato mortale invece è un altro: quello di eludere le domande di poco sopra. Di pensare che Beslan non c?entri con la nostra vita, con le nostre scelte, con il nostro destino. A Beslan abbiamo visto la crudeltà accanirsi contro i bambini. Pochi giorni prima, l?Olanda, Paese civile, certamente esente da ogni fanatismo, prendeva una decisione clamorosa: veniva legalizzata l?eutanasia anche per i bambini sotto i 12 anni. Poco importa che, da Paese di tradizioni civili ben consolidate, il legislatore si sia premurato di mettere mille paletti per rendere assolutamente certa e corretta questa terribile procedura. Importa che il principio abbia fatto breccia, magari camuffato come diritto a non vivere una vita infelice. Certo, può sembrare ardito accostare questa morte dolce, calma, circondata dal consenso e da un educato dolore, a quelle altre morti laceranti, strappate a raffiche di mitra sparate alle spalle. Eppure c?è un filo sottile che lega una situazione all?altra: ed è la riduzione della vita a cosa. Una cosa la si padroneggia, con brutalità o con buone maniere, non è questo quel che conta. Una cosa la si butta se è nera quando la si voleva bianca, quando è brutta e la si esigeva o sognava bella. Quando si scopre che il conservarla richiede troppe risorse o troppa fatica. Questo succede anche della vita, ogni volta che dalla vita si cancella il mistero che l?ha fatta essere. Perdonate l?accostamento così ardito tra Beslan e Amsterdam, ma quel che sentiamo nell?aria è una resa davanti a questa insostenibile riduzione dell?uomo a puro calcolo egoistico, a prodotto funzionale a una logica di benessere (quale benessere, poi?). Si può accettare di vivere avendo davanti un orizzonte così? E con quale cuore parleremo ai bambini sopravvissuti di Beslan noi che, in tutta tranquillità, un domani potremo decidere quale bambino è bene che viva e quale no?


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