Welfare

Se il welfare ha poco valore

Quanto valore attribuiamo (noi operatori, gli amministratori locali e regionali, i ministeri e le università) al “lavoro di cura” intendendo non solo quello svolto nei confronti delle persone “malate”, ma, in maniera più estensiva l’assistenza, l’educazione, la prevenzione e promozione (per bambini, anziani, adulti, famiglie, adolescenti, giovani); il lavoro del “prendersi cura o meglio del prendersi a cuore”; insomma, in una parola, del welfare?

di Valeria Negrini

Ho letto con molta attenzione i recenti articoli apparsi su Vita (Sara De Carli, Silvio Premoli, Roberto Speziale) e non posso che concordare rispetto al grido di allarme per il rischio che molti servizi non possano più continuare ad operare.

Aggiungo che identica preoccupazione deve riguardare le professioni sanitarie in genere (medici, infermieri, OSS. Etc..) la cui insufficienza numerica da un lato e l’uguale effetto attrattivo verso la PA stanno determinando altrettante difficoltà nei servizi sociosanitari e sanitari gestiti dalle cooperative sociali e dalle altre organizzazioni del Terzo Settore.

Il problema è già stato segnalato, più volte, e non solo da noi, a Regione Lombardia, all’ANCI, ai Ministeri ancora nel corso dell’anno 2020 quando, complice la pandemia, il fenomeno di scarsità e di esodo aveva già cominciato a manifestarsi.

Come correttamente evidenziava il professor Premoli, molteplici sono i fattori che hanno portato alla situazione attuale e le responsabilità interrogano diversi attori a diversi livelli (locale, regionale, nazionale).

Voglio però soffermarmi su quella che a mio avviso è da individuare come la causa endogena, di fondo, che mina da tempo il sistema del welfare e che nella mancanza di figure trova oggi un modo dirompente per manifestarsi.

Riassumendo direi che stiamo parlando di quanto valore attribuiamo (noi operatori, gli amministratori locali e regionali, i ministeri e le università) al “lavoro di cura” intendendo non solo quello svolto nei confronti delle persone “malate”, ma, in maniera più estensiva l’assistenza, l’educazione, la prevenzione e promozione (per bambini, anziani, adulti, famiglie, adolescenti, giovani); il lavoro del “prendersi cura o meglio del prendersi a cuore”; insomma, in una parola, del welfare.

Che il nostro welfare sia sbilanciato enormemente nei trasferimenti monetari (pensioni, indennità, ma anche buoni e voucher), che non sia da tempo più adeguato a rispondere ai bisogni, che sia frammentato e puntiforme è direi un’analisi più che condivisa da molti (e che ha trovato molto spazio anche su questa rivista).

Eppure, nonostante queste analisi e denunce, quando si parla di strategie per lo sviluppo non si considera mai abbastanza – nei fatti – il sistema di welfare come uno degli elementi determinanti capace di orientare lo sviluppo verso una crescita non solo economica, ma verso una società più equa, meno diseguale, meno conflittuale e rancorosa, più partecipativa e responsabile e quindi anche più democratica.

L’enfasi viene posta su altre strategie: sostenibilità ambientale, transizione digitale, infrastrutture, trasporti, etc…(vedi PNRR). Obiettivi sicuramente importanti e assolutamente necessari, ma non sufficienti se davvero si vuole che questo Paese “cambi davvero passo” nel poter offrire e garantire uguali opportunità alle persone indipendentemente dal luogo in cui si è nati o in cui si vive, dalla ricchezza familiare, dal genere, dall’età, dalle convinzioni religiose, dalle provenienze geografiche.

Ma se i sistemi di cura e di educazione, se le attività e i servizi rivolti ai giovani, ai bambini, alle persone con disabilità, agli anziani, sono considerate poco importanti, o meno importanti di altre, significa che si attribuisce loro poco valore; e se una cosa ha poco valore si può giustificare che costi poco e venga pagata poco.

Lo dimostrano i contratti con la P.A. che non recepiscono i rinnovi contrattuali (per la cooperazione sociale ben 2 nel corso degli ultimi anni senza che questo abbia determinato un aumento delle rette/tariffe o dei corrispettivi); lo vediamo quando ci troviamo ancora a dover spiegare a un funzionario che il costo del servizio non è dato dalla somma del costo delle ore di personale, perchè le cooperative sociali, al pari delle altre imprese, sopportano altri costi; e infine il valore dato al welfare lo vediamo nelle gare bandite “apparentemente” secondo il criterio dell’Offerta Economicamente Più Vantaggiosa ma che poi adottano una formula per la parte economica che di fatto premia il criterio del massimo ribasso.

Questa è la realtà in cui si trovano a dover operare molte cooperative sociali, questo il motivo per cui pur applicando integralmente il CCNL, facciamo fatica ad offrire stipendi più adeguati, soprattutto in un momento in cui i costi dell’energia e del gas, nonché degli alimentari pesa in modo spropositato anche sul bilancio delle nostre imprese.

Inoltre, nonostante il mantra ricorrente e reiterato della necessaria “integrazione socio-sanitaria” l’impressione è che si remi, consapevolmente o inconsapevolmente, verso il mantenere questi sistemi separati, perché si continua a pensare che il sapere medico, sanitario, l’approccio clinico sia migliore, più adeguato e più importante di qualunque altro sapere.

Abbiamo sistemi di regolazione dei servizi (accreditamenti socio sanitari e sociali) disegnati oltre 20 anni fa e che oggi mostrano la corda alla pressione dei bisogni; sistemi che hanno ingabbiato il “prendersi cura” in procedure e prestazioni, suddiviso funzioni in base alla laurea, introdotto limitazioni nel fare a seconda del titolo di studio acquisito, parcellizzato il percorso di cura nella somma di tante azioni che devono essere dettagliate singolarmente, aumentando tra l’altro a dismisura burocrazia e formalità amministrative.

Sia chiaro, non voglio assolutamente dire con questo che chiunque possa fare tutto o che le professioni con le loro specialità non siano un elemento di qualità, tutt’altro; ma credo sia venuto il momento di provare a disegnare la qualità dei servizi partendo più dagli esiti che producono piuttosto che solo dagli standard gestionali e strutturali.

È così impossibile definire una valutazione degli esiti? Dire che valuto un servizio o un’attività in base, ad esempio, alla maggiore autonomia raggiunta dalle persone? alla loro maggiore capacità di avere relazioni non più conflittuali o aggressive con gli altri? al fatto che tornano o continuano a studiare ed andare a scuola? al fatto che non tornano a delinquere? al fatto che si danno da fare per cercare un lavoro? che riescono a muoversi autonomamente in città o nel quartiere, che si fanno degli amici? che tornano ad esprimere volontà e desideri? che stanno meglio di quando hanno avuto accesso al servizio?

E allora possiamo anche dire che non è poi così determinante definire se questi risultati positivi sono stati raggiunti grazie alla figura di un infermiere o di un educatore SNT/2 o L19, o di un assistente sociale, o di uno psicologo, o di un laureato in filosofia, o di un operatore che non ha una laurea ma ha una capacità fenomenale di entrare in empatia con la persona e di essere un efficace accompagnatore e stimolatore di potenzialità?

Già esistono esperienze simili; alcuni dei migliori percorsi di attuazione del “Dopo di Noi” (Legge 112/2016) sono lì a dimostrare che è importante il ruolo svolto da un infermiere o da un educatore tanto quanto (non di più, ma nemmeno di meno) del vicino di casa, del badante, del volontario, di chi affitta l’appartamento, di chi fa teatro o musica o sport ….

E chi esercita una professione (educatore, infermiere, etcc..) svolge il ruolo di case manager, facendo in modo che tutti questi saperi e queste competenze lavorino in sinergia e in modo complementare per assicurare e garantire alla persona le migliori condizioni perché possa esprimere al meglio le proprie capacità per realizzare i propri desideri.

È un lavoro non meno faticoso e carico di responsabilità, ma certo più gratificante, più motivante, più capace di valorizzare insegnamenti e competenze acquisti negli studi.

Le università, dal canto loro, negli ultimi anni hanno moltiplicato i corsi di laurea, andando a costruire percorsi sempre più specialistici e parcellizzati, dedicati a “pezzi” di vita, “pezzi” di utenti, ma spiazzanti in relazione al mondo del lavoro dove le proprie competenze dovranno essere messe alla prova. Le università non hanno legami con gli operatori del settore sociale, socio assistenziale e socio sanitario, riferendosi al massimo a enti pubblici che da anni non gestiscono più servizi. C’è un patrimonio di sapere e di conoscenze che si è costruito nella pratica operativa e professionale, delle cooperative e non solo, che non trova riconoscimento accademico. La mancata comunicazione e collegamento tra il mondo della formazione accademica e quello della pratica professionale, finisce per scontentare tutti. Il professionista, perché si aspettava che la sua professione fosse altro, l’impresa che si aspettava un professionista più capace di agire nella realtà.

Oggi le competenze necessarie sono quelle relative alla gestione della complessità, alla capacità di avere approcci e sguardi trasversali, di ricomporre conflitti, di connettere risorse, di saper leggere e interpretare il contesto (familiare, sociale, ambientale, culturale), di mantenere legami comunitari, di creare e rafforzare relazioni di fiducia tra le persone, di alimentare la solidarietà e la reciprocità tra simili e tra diversi.

La realtà osservata nei percorsi di cambiamento resisi necessari per fronteggiare la pandemia ci suggerisce che nelle nostre comunità, se, da parte di chi gestisce servizi, c’è la volontà di renderle partecipi, si libera un potenziale in grado di contribuire a riqualificare i servizi e gli interventi per accorciare la distanza tra cittadini ed istituzioni. La competenza più preziosa nel welfare è quindi quella di chi è in grado di contaminare culture, visioni, modelli e metodi; quella di chi si apre all’innovazione e alla scoperta, di chi ragiona per risultati da raggiungere piuttosto che per ruoli da inquadrare gerarchicamente. Culture e visioni organizzative arroccate in difesa impediscono alle stesse organizzazioni di promuovere investimenti ideativi, progettuali innovativi, così decisivi e strategici per affrontare il cambiamento e la complessità delle nuove sfide legate alla trasformazione della nostra società.

A complicare le cose, per l’educatore professionale, c’è sicuramente la doppia figura, che pare rispondere a necessità delle diverse università più che ai bisogni delle persone, e che – nella dicotomia tra socio sanitario e socio pedagogico – vede le imprese cooperative e le altre organizzazioni che operano nel welfare lasciate sole nella responsabilità di garantire la continuità dei servizi.

Per questo è urgente trovare un’intesa con Regione Lombardia per rimodulare alcuni requisiti di accreditamento e consentire l'ingresso di professionalità e competenze altre accanto a quelle oggi definite dagli standard; il confronto si è già aperto, speriamo si possa chiudere velocemente e in modo positivo.

In chiusura un auspicio: che “le professioni” smettano la strada delle rivendicazioni corporative che enfatizzano l’interpretazione del welfare come uno dei tanti “mercati”, in cui se la domanda (di lavoro) supera l’offerta (di lavoratori) il prezzo sale; il welfare ha bisogno di maggiori risorse e meglio orientate, non c’è dubbio, anche per poter meglio remunerare che ci lavora. Ma è altrettanto necessario recuperare l’idea che ciò che si agisce verso gli individui, verso i singoli, deve sempre avere una valenza collettiva e comunitaria. Lo scopo del lavoro dell’educatore e della cooperazione sociale non è garantire l’appropriatezza di un servizio ma cambiare la vita della persona e le caratteristiche del contesto in cui vive. Perché il welfare o si fa con la comunità oppure non esiste più.

* presidente Confcooperative Federsolidarietà Lombardia

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