Oggi, in un silenzio un po’ imbarazzato e distratto (da segnalare solo l’uscita di una raccolta di suoi scritti da Duepunti edizioni, a cura di Salvo Vaccaro), ricorre il venticinquesimo della morte di Michel Foucault. Foucault moriva, infatti, il 25 giugno del 1984, a soli cinquantasette anni. Con lui, più che un “teorico dei poteri”, scompariva un ricercatore, un pensatore (nel senso letterale e più fisico della parola), uno studioso appassionato e capace di indagare sino alle frontiere del pensiero, della storia e di se stesso. Foucault ci ha regalato le indagini più approfondite sulle tecnologie dell’esclusione e sugli istituti disciplinari che modellano la società occidentale.
Ma Foucault era tutt’altro che relativista. Credeva che qualcosa come la verità esistesse, almeno come principio di distinzione tra i discorsi, e come potere di obiezione contro la menzogna, in particolare contro la menzogna politica e ideologica; François Ewald definiva “anatomia politica” il metodo di Foucault e scriveva: “L’anatomia politica non ci promette niente, e non predice niente; piuttosto ci rende il potere odioso, ci insegna a non cedere alle sue dolcezze, a smascherarlo in ogni luogo in cui si esercita, qualunque
sia la forma che assume”. Fosse anche il modo di relazionarsi con gli altri. Per questo Foucault distingueva tra processi di liberazione e pratiche di libertà (santissima distinzione).
Della società in cui viviamo, e di cui negli anni settanta si vedevano gli albori, e del suo lavoro, scriveva: “Il mondo è un grande asilo nel quale i governanti sono gli psicologi e il popolo i pazienti. Ogni giorno che passa diventa più grande il ruolo svolto da criminologi, psichiatri e da tutti coloro che studiano il comportamento mentale dell’uomo. Da ciò dipende il fatto che il potere politico stia sul punto di acquisire una nuova funzione, che è appunto quella terapeutica. Io mi considero un giornalista, nella misura in cui ciò che mi interessa è l’attualità, ciò che ci succede intorno, quello che accade nel mondo. (…) Se vogliamo essere padroni del nostro futuro, dobbiamo porre fondamentalmente la questione dell’oggi. Ed è per questo che, per me, la filosofia è una specie di giornalismo radicale”.
Negli ultimi due mesi, insieme a Marco Dotti abbiamo fatto un viaggio dentro la mole di scritti di Foucault per preparare un numero di Communitas, coordinati da Aldo Bonomi, di prossima uscita. Di questo viaggio nei suoi testi, oggi, anticipo due lemmi.
CRITICA
Proporrei come prima definizione generale della «critica» la seguente: l’arte di non essere eccessivamente governati. (…) direi che la critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità; la critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata.
[Qu’est-ce que la critique? “Bullettin de la Société Française de Philosophie”, aprile-giugno 1990].
L’AMICIZIA
Attualmente sono molto interessato al tema dell’amicizia. Dall’antichità, nel corso dei secoli, l’amicizia è stata una relazione sociale molto importante, al cui interno gli individui disponevano di una certa libertà, di una specie di scelta (limitata, beninteso), e che permetteva loro al contempo di vivere rapporti affettivi molto intensi. L’amicizia comportava inoltre risvolti economici e sociali, si era tenuti ad intervenire in soccorso dell’amico, ecc. Sono dell’avviso che questo genere d’amicizia scompaia nel XVI e XVII secolo, almeno nella società maschile. L’amicizia comincia allora a divenire qualcos’altro. Dal XVI secolo, troviamo testi che criticano esplicitamente l’amicizia come una cosa pericolosa. L’esercito, la burocrazia, l’amministrazione, l’istruzione (nel senso moderno dei termini) non possono funzionare con amicizie così intense. Penso che sia possibile osservare in tutte queste istituzioni uno sforzo per ridurre o minimizzare le relazioni affettive. L’evento è particolarmente evidente nelle scuole. Quando si inaugura un istituto superiore, destinato ad accogliere centinaia di ragazzi, uno dei problemi posti è stato di sapere in che modo impedire non solo di fare l’amore tra di loro, ovviamente, ma anche di stringere amicizie. Sarebbe interessante a questo proposito analizzare la strategia degli istituti gesuiti, per esempio, i quali avevano perfettamente compreso la loro incapacità di sopprimere l’amicizia. Hanno quindi tentato di utilizzare di volta in volta la funzione che giocavano il sesso, l’amore, l’amicizia, e di limitarla.
Credo che, oggi, dopo aver esaminato la storia della sessualità, dovremmo cercare di comprendere quella dell’amicizia, o delle amicizie. Sarebbe una storia estremamente interessante. (…)
[Michel Foucault, an Interview: Sex, Power and the Politics of Identity, intervista a cura di Bob Gallagher e Alexander Wilson (Toronto, Canada, 7 giugno 1982), “The Advocate”, n.400, 7 agosto 1984, in MFdd: 213-215]
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