Se è Patrimonio dell’umanità, allora è anche un po’ mia …

di Vittorio Sammarco

E sono tre! Me lo aspettavo, lo temevo, ma non così tanti e in così poco tempo. Che qualche amico – venuto a conoscenza di questo blog – mi obiettasse, certo in modo educato e amichevole, ma un po’ puntuto, su come sia possibile che un non materano parli in maniera approfondita e con cognizione di causa della svolta storica di questa città (capitale europea della cultura per il 2019, da “vergogna nazionale” che era…). Per qualcuno appare un’operazione – diciamo così – un po’ presuntuosa. Quasi di lesa maestà. Matera ai materani! Che c’entra un cosentino per giunta trapiantato a Roma?

Ma io rispondo (serenamente e pacatamente …), con un’osservazione che dovrebbe lasciare poco spazio alla contraddizione, almeno in linea teorica: Matera, secondo l’Unesco, è Patrimonio dell’umanità. Quindi, se permettete, anche un po’ mia. “La città è anzitutto lo sguardo che la osserva e l’animo che la vive”, ha scritto Claudio Magris parlando di tutte le città.

L’Italia è il Paese al mondo che detiene più siti, materiali e immateriali, 50 su 1001, (lasciate perdere chi spara cifre implausibili fino a parlare – ho sentito con le mie orecchie – del 50 per cento dei siti mondiali in Italia, a testimonianza che non conosciamo proprio nulla, nemmeno i nostri…). Patrimonio comunque inestimabile.

E Matera lo è fin dal 1993, quando l’opera di restauro e di riabilitazione ancora doveva essere portata a termine. Patrimonio significa – secondo me – cura, affetto, presa in carico, attenzione continua e disinteressata. Da pater, non necessariamente per affari fatti o da fare … Il patrimonio si lascia in eredità, si riceve, e si gestisce con affetto, anche se non si ha alcun merito (purtroppo, alle volte con fortune alterne, che vedono man mano il dilapidarsi di risorse accumulate con fatica negli anni e che giovani beneficiati hanno impropriamente condannato all’incuria). Si condivide, spesso, nella responsabilità.

Quando il 16 novembre del 1972 è stato firmato il testo della Convenzione da cui sarebbero poi mano mano derivati i riconoscimenti e le proclamazioni dei siti, l’Onu ha impegnato gli Stati partecipi affinché si sforzino “con tutti i mezzi appropriati, segnatamente con programmi d’educazione e informazione, di consolidare il rispetto e l’attaccamento dei loro popoli al patrimonio culturale e naturale definito negli articoli 1 e 2 della Convenzione” (art.27).

Ecco: nell’educazione e nell’informazione, credo, rientrino anche la capacità di trasmettere le storie di persone che hanno scelto di occuparsi di un luogo, di una città, di un sito, per amore, senza esserci nati o cresciuti.

Uno di questi, che da non nativo ha amato Matera come pochi, è il grande artista spagnolo Josè Ortega (1921 – 1990), che in una casa nei sassi ora splendidamente recuperata a museo per merito della Fondazione Zétema) ha vissuto a lungo; ritornato in Spagna, da dove era fuggito perseguitato dalla dittatura franchista, scelse poi di vivere gli ultimi anni in un piccolo borgo nel salernitano, Bosco. Ora le sue opere bellissime sono in mostra al Musma (Museo di scultura contemporanea). Dal 18 aprile al 25 settembre, informa il “mitico” sito www.verybello.it. Con scarne informazioni in più (modificando presto la data che inizialmente riportava il 7 febbario come giorno di apertura): mancano orari, note tecniche, qualche immagine o notizia di chi sia e cosa abbia mai creato Josè Ortega. Giusto per invogliare a … gustare il bello. Senza quell’attenzione che testimonia e trasmette la cura, appunto.

Lui, Ortega, amava Matera e l’Italia meridionale un po’ tutta: “Qui sono venuto – diceva – a costruire un pezzetto di libertà. Lavorare in queste terre, significa osservare e imparare costantemente, per portare poi con noi qualcosa di veramente puro e genuino che valga la pena di aver assimilato”.

Domanda: vale ancora la pena, in questa Italia così approssimativa?

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