Ha suscitato un certo scalpore la protesta dei taxisti milanesi contro Uber, l’applicazione che consente di organizzare una mobilità alternativa rispetto a quella ufficiale dei “mezzi pubblici”. Ultimo atto di una tensione crescente che vede moltiplicarsi gli episodi di aggressione nei confronti degli autisti che aderiscono al social network. Forse è un po’ esagerato, ma sembra di assistere alla “prima guerra della sharing economy”. Sì perché il casus belli di Uber probabilmente non rimarrà isolato e si ripresenterà su altri mercati di beni e servizi che le piattaforme della condivisione contribuiscono a disintermediare spazzando via autorizzazioni, regolamenti, categorie e lobby professionali. Basti pensare all’offerta di residenzialità di Airbnb finita nell’occhio del ciclone per le proteste di albergatori e altri operatori turistici. Ma neanche il welfare è al riparo dalla sharing economy: tra le diverse piattaforme ottimamente censite da Collaboriamo più di una intermedia domanda e offerta di servizi sociali ed educativi come le baby sitter. Il tutto naturalmente senza accreditamenti, autorizzazioni, ecc. Di fatto in molti ambiti questi nuovi soggetti stanno ridisegnando il mercato del lavoro, con buona pace del job act e del “dialogo sociale” tra le varie organizzazioni sindacali.
L’ambivalenza regna sovrana: i taxisti milanesi sono una corporazione che difende – a malomodo – i propri interessi rispetto a un nuovo concorrente, oppure sono preoccupati di tutelare un mercato che è protetto e regolato anche e soprattutto a favore degli utenti? E Uber (e i suoi fratelli) è un formidabile strumento per liberalizzare mercati (soprattutto dei servizi) dove tutti i governi italiani hanno fallito, oppure è il cavallo di troia del nuovo “capitalismo netcratico” dei giganti del digitale che, con la complicità della solita finanza globale, colonizza gli spazi di socialità fin qui monopolizzati da Stato e nonprofit? Tutti temi che meritano un approfondimento. Perché le piattaforme non sono tutte uguali (anche per quanto riguarda la governance), perché le economie dei servizi hanno caratteristiche molto diverse, perché i bisogni (il vero driver di questi mercati) sono segmentati a seconda del contesto e dei portatori di interesse.
Nel frattempo, però, serve una soluzione, non solo sul piano regolativo ma anche nelle strategie dei diversi soggetti coinvolti, in particolare da parte di chi rischia di essere spiazzato dall’avvento di una innovazione distruttiva come la sharing economy. Da questo punto di vista mi viene in mente un episodio dove a svolgere il ruolo di “disrupter”, curiosamente, sono stati proprio loro, i taxisti. Qualche tempo fa in Trentino è stato liberalizzato il trasporto per le persone disabili, dunque basta convenzioni dirette con le coop specializzate (e il nome dice tutto: “La Ruota” e “La Strada”), accreditamento allargato a soggetti diversi (anche al radiotaxi) e riallocazone delle risorse economiche pubbliche direttamente nelle tasche degli utenti (in forma di conto chilometrico da utilizzare con il fornitore preferito). Risultato? I taxisti, dopo qualche esitazione, hanno scoperto che si trattava di un mercato interessante, anche perché la loro offerta era particolarmente apprezzata da utenti che, potendolo fare, preferivano auto da “normodotati” piuttosto che mezzi di trasporto pesantemente connotati con lo stigma della disibilità (furgoni, lampeggianti, ecc.). D’altro canto le coop hanno reagito migliorando la loro flotta di mezzi, dando vita a un loro call center (stile taxi), individuando le tratte più consone rispetto ai bisogni non soddisfatti. E così, come insegna questa storia e come ricorda Alberto Mingardi in questo articolo, la ricetta è solo una: innovare.
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