Le organizzazioni sono fatte per durare e per questo sono destinate a cambiare. In questo senso sono plastiche: si possono deformare in modo profondo e permanente per effetto di forze interne ed esterne, ma senza rompersi e disgregarsi nei loro elementi costitutivi. Forse è per questa ragione che la letteratura (e il bagaglio di strumenti) per la gestione del cambiamento organizzativo gode sempre di un certo successo tra gli addetti ai lavori.
Già da qualche tempo si nota una diversa enfasi rispetto alle driving forces del cambiamento. Da fattori puntuali legati alla catena di produzione del valore (innovazioni tecnologiche, scelte di consumo, competenze e motivazioni di lavoratori e fornitori) si passa a elementi di scenario che ridisegnano il quadro dei significati e delle norme sociali dove le organizzazioni nascono ed evolvono. Per le imprese, ad esempio, si evidenziano sempre più spesso spinte al cambiamento che investono la legittimazione del loro operato e della loro stessa esistenza presso i vari stakeholder, a maggior ragione se "abitano" un territorio ponendosi in rapporto mutuale con esso. E la risposta a sollecitazioni come queste non può che consistere nella redifinizione delle modalità di produzione e redistribuzione del valore secondo modalità meno estrattive e più condivise. Da questo punto di vista si sentono tutti i cinquant'anni del saggio di Friedman dove il premio nobel e guru del management sosteneva che il miglior modo di fare responsabilità sociale per un'impresa è fare profitti.
L'evidenza di questo passaggio fa la differenza nelle strategie e azioni di gestione del cambiamento. Alle volte basta guardare a come queste vengono intitolate. Usando, ad esempio, il termine "conciliazione" è evidente un intento di tipo adattativo che non richiede molta plasticità organizzativa. Se però i tempi cambiano improvvisamente e profondamente come in questa fase (e probabilmente nel futuro prossimo) un approccio di questo tipo potrebbe non bastare. Il rapporto persona – organizzazione (e tutto il suo corredo fatto di reti primarie, comunità territoriali, risorse ambientali, ecc.) rischia infatti di sgretolarsi alle fondamenta, non solo in termini di risorse scambiate ma soprattutto di dimensione identitaria e di senso, facendo emergere interrogativi "fondamentali" legati all'appartenenza organizzativa e addirittura alla necessità di dotarsi di un'organizzazione per lo svolgimento di attività, anche complesse, rischiose e di lungo periodo.
La reazione più immediata potrebbe consistere nel riprendere il controllo dei fattori chiave: il tempo, lo spazio, i mezzi di produzione, ma, come ricordava qualche giorno fa Ivana Pais durante un seminario delle Giornate di Bertinoro sull'economia civile, in tutti i casi è davvero complicato (se non addirittura controproducente). L'era pandemica, infatti, accelera tendenze di medio periodo come la possibilità di operare in remoto rispetto ai centri di produzione e di accedere a tecnologie che abilitano meccanismi collaborativi. Trend spesso assecondati dalle stesse organizzazioni che, a seconda dei casi, sono un po' vittime (per effetto di comportamenti sempre più liberi e pragmatici dei collaboratori che possono sfociare nell'opportunismo) e un po' carnefici (attraverso l'adozione di forme di controllo e di estrazione del valore che si fanno sempre più sofisticate e pervasive).
La conciliazione vita – lavoro, in quest'ottica, è una sfida sociale che richiede strategie di cambiamento "ecosistemiche". Da questo punto di vista le evidenze di ricerca del progetto europeo Masp lasciano intravedere alcune direttici promettenti.
- In primo luogo occorre guardare in modo nuovo al modo in cui si strutturano e soprattutto si riproducono le reti primarie e i tessuti comunitari intorno alle famiglie e al ruolo sostanziale (e non solo evocato) che queste risorse sono effettivamente in grado di svolgere in termini di innovazione sociale e non semplicemente di rete "di ultima istanza" rispetto al welfare.
- Oltre alla socialità bottom-up è necessario, in secondo luogo, ripensare il sistema di offerta dei servizi sociali e di facilitazione della vita quotidiana, in particolare quelli pubblici ed erogati da fornitori appartenenti al terzo settore e all'impresa sociale, proponendo nuovi modelli di produzione capaci di utilizzare in modo autenticamente “intelligente” il potenziale sociale delle tecnologie digitali.
- La rimodulazione dei legami sociali e la qualificazione dell’offerta di servizi può innescare, in terzo luogo, i già citati processi di cambiamento organizzativo sempre più rilevanti per le imprese, in particolare quelle di piccole e medie dimensioni e che operano in rete, consentendo anche a queste ultime, e non solo a quelle di grandi dimensioni, di riconoscere il valore derivante da una maggiore interpolazione tra le sfere della genitorialità e del lavoro e trasformandolo in un fattore di competitività.
- In quarto luogo il percorso di empowerment che riguarda genitori, reti sociali, sistema dei servizi e luoghi di lavoro, può essere all’origine di un impatto sociale positivo e durevole sui sistemi di regolazione pubblica che però è necessario ridisegnare nell’architettura e nella mission agendo in maniera trasversale rispetto agli ambiti di policy tradizionali (politiche sociali, economiche, di mobilità, ecc.).
- Infine l’architettura di un nuovo paradigma basato sulla sinergia tra genitorialità e lavoro richiede di dotarsi di nuovi ruoli professionali e di spazi dedicati in grado di innescare e assecondare tali sinergie non solo attraverso la prestazione di servizi specialistici, ma soprattutto grazie alla costruzione e manutenzione di comunità orientate a sperimentare e a rendere di uso comune pratiche quotidiane che incorporano cambiamenti sociali rilevanti.
Se tutti questi fattori evidenziano sempre più che conciliazione fa rima con trasformazione, allora è davvero necessario rivedere gli strumenti e le logiche di change management organizzativo, iniziando, in questo caso, anche dall'apparato concettuale e terminologico.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.