Economia

Se colpite i donatori, uccidete l’economia

Un professore di Yale sul New York Times si oppone al piano di Obama per ridurre i vantaggi fiscali ai filantropi. Perché la vera ricchezza si crea eliminando le differenze sociali. Come fece Roosevelt...

di Gabriella Meroni

Le tasse non devono scoraggiare le donazioni: sembra un'ovvietà, ma non lo è affatto, nemmeno negli Stati Uniti, dove questa frase è diventata il titolo di un editoriale del New York Times firmato dal professor Robert J. Shiller (nella foto), docente di Economia e Finanza a Yale e autore di "Finance and the Good Society" (La finanza e la buona società, edizioni Princeton 2012).

Il professore parte da lontano, ricordando agli americano qualcosa che forse i più hanno dimenticato: nel 1944 l'aliquota sul reddito personale dei ricchi (redditi oltre i 200mila dollari di allora) arrivava al 94%, eppure – nota Shiller – l'economia era fiorente e la società senza gli squilibri di oggi. C'era la guerra, e forse le persone erano più generose, comunque al di là della retorica ci sono cifre che confermano: oltre all'aliquota del 94% per i più abbienti, il presidente Rooselvelt mise in chiaro già nel 1940 che "la guerra non avrebbe creato un solo milionario": quell'aliquota stellare, spiega il professore, gli servì a mantenere la promessa.

Dopo la guerra le aliquote scesero, ma lentamente: nel 1963 erano ancora al 91%, eppure in quegli anni il Pil degli Usa cresceva a un ritmo eccezionale, facendo segnare un +3,7% l'anno in media dal 1948 al 1963. Come mai? I motivi sono tanti, dice il professore, ma identifica il principale nella "armonia sociale" di quegli anni. "Molte persone avevano perso la vita durante la guerra, e i superstiti si msotravano molto caritatevoli gli uni verso gli altri, sia a livello personale che istituzionale", scrive Shiller.

Oggi, che l'aliquota che grava sui redditi alti è solo al 35% (anche se potrebbe salire un po' se i provvedimenti taglia-tasse dell'era Bush non saranno rinnovati), le differenze socioeconomiche sono molto peggiori, e per il professore la ricetta che potrebbe alleviarle passa sicuramente attraverso un aumento delle aliquote, anche se non ai livelli del dopoguerra. Del resto, nota Shiller, quel 94% applicato nel 1944 ai redditi sopra i 200mila dollari si riferirebbe oggi ai redditi oltre i 2,6 milioni di dollari.

Nel tempo, però, il governo escogitò un sistema geniale per mantenere viva l'economia e nnon uccidere i ricchi sotto il peso delle tasse: i vantaggi fiscali sulle donazioni. E fu proprio nel 1944 che la percentuale di deduzione per chi donava al non profit venne portato perla prima volta al 15%, e da lì fu un'escalation: il 20% nel 1953, il 30% nel 1954 fino, addirittura, al 100% (con qualche limitazione) nel 1956. Oggi negli Usa è al massimo al 50%.

Risultato? Tutti i ricchi, soprattutto i più egoisti, fecero due conti e capirono che gli conveniva molto di più donare i loro sudati asset alle charities e godersi le deduzioni. E così fecero. Non mancarono i critici, ovviamente, coloro che vedevano in queste donazioni solo l'escamotage per pagare meno tasse; molti filantropi, invece di essere apprezzati, venivano visti solo come cinici elusori. Una cattiva fama – continua Shiller – che accompagna molti di loro anche oggi, anche se le aliquote di oggi non permettono certo di fare profitti donando asset. Ed è giusto: i governi devono incoraggiare la filantropia ma non fare di più. "Un dono deve essere un vero dono", scrive il professore.

Ed ecco la domanda che apre la seconda parte del ragionamento: le donazioni dovrebbero essere una parte fondamentale del capitalismo finanziario? La risposta è sì. "E' necessario accompagnare ogni aumento delle tasse a un aumento delle agevolazioni per la filantropia". "Dopo qualunque balzo in avanti della pressione fiscale sui redditi alti", scrive Shiller, "gli stessi ricchi devono ricevere un notevole incentivo a donare soldi per buone cause. Alle scuole, alle università, agli ospedali, alle chiese, all'arte e ad altri obiettivi del genere. Più donazioni ci sono, più il governo risparmia, quindi le deduzioni concesse non diventano costi insostenibili. Anzi: possono contribuire all'imprenditorialità del non profit".

L'ultima parte dell'articolo si sposta decisamente sull'attualità, per scongiurare un pericolo incombente sull'economia americana: "Purtroppo", scrive  il professore, "oggi si parla di ridurre le agevolazioni fiscali per i donatori più abbienti per cercare di ridurre il deficit dello Stato. Si propongono tagli sia da parte del Parlamento sia da parte del Presidente. E' un errore. E' giusto preoccuparsi per le disuguaglianze sociali, ma è anche giusto concentrarsi su come poter migliorare le nostre politiche fiscali per far crescere sentimenti positivi di reciprocità e sostegno nella società. Come possiamo farlo? Solo continuando a incoraggiare chi dona e fa innovazione, e lo fa lavorando sodo".
 

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