Welfare

Se a pagare il welfare sono i lavoratori del sociale

Il giorno 26 gennaio a Milano VITA e il Comune del capoluogo lombardo organizzano un convegno intitolato "Lavoro sociale, lavoro povero?". Per introdurlo riproponiamo per intero l'editoriale che apre il numero del magazine di dicembre/gennaio

di Stefano Arduini

L’osservatorio delle Povertà e Risorse della Caritas Emilia Romagna recentemente ha prodotto un report sull’andamento delle attività 2022 che registra, in una delle regioni più ricche d’Italia, un aumento del 20% delle persone e delle famiglie che si sono rivolte ai centri di ascolto: sono stati 27.949 in totale gli individui che hanno chiesto aiuto, (nel 2021 erano state 23.333). È cosa nota che nel nostro Paese il rischio di povertà ed esclusione sociale disegna una curva di crescita costante che ormai tocca il 24% della popolazione, tre punti in più della media europea, e al Sud raggiunge la soglia del 40%. L’esclusione sociale è un una zona grigia: nel concreto significa non poter più svolgere una normale vita di relazioni, non poter esercitare diritti essenziali come curarsi, istruire i propri figli e se stessi o godere di un’assistenza socio-sanitaria adeguata.

A questa sofferenza rispondono le cosiddette professioni di cura, ovvero tutti quegli operatori che si occupano di anziani, non autosufficienti, adolescenti problematici, minori con disagio, poveri, comunità terapeutiche, migranti, persone con disabilità, senza tetto e così via. Non sorprende quindi che mai come negli anni del post pandemia la richiesta di personale nei settori del socio-sanitario, dell’assistenza e dell’educativa sia in forte aumento. Una domanda a cui, però, corrisponde una disponibilità sempre più bassa. Su questo sito abbiamo documentato come siano sempre meno i giovani diplomati a fare domanda di ammissione ai corsi di laurea triennale per educatori professionali.

Ma è solo un aspetto di un problema ben più largo. Le posizioni scoperte nei servizi socioeducativi sono in drastico aumento dovunque, come aumentano le chiusure dei servizi. La causa? Nella stragrande maggioranza dei casi la mancanza di personale. In particolare per le organizzazioni del privato sociale a cui di fatto il pubblico ha scelto di esternalizzare l’intero comparto dei servizi socio-educativi, spostando la spesa sugli enti locali i quali, lamentando problemi di cassa sempre più preoccupanti, spesso gestiscono i rapporti con i fornitori del Terzo settore attraverso bandi al massimo ribasso (talvolta perfino sotto le mentite spoglie della coprogettazione).

Un pezzo consistente del welfare di questo Paese è finanziato grazie alle basse se non bassissime retribuzioni riconosciute a chi lavora nel sociale

Siamo di fronte a una vera e propria emergenza nazionale, che nei prossimi mesi assumerà caratteri ancora più gravi. Se, come è, il nodo risiede nella sempre più scarsa appetibilità delle professioni sociali, in una società che invece le richiede con sempre maggior urgenza sarebbe necessario prendere atto una volta per tutte di quello che è un dato di fatto figlio di precise scelte politiche ed amministrative: un pezzo consistente del welfare di questo Paese è finanziato grazie alle basse se non bassissime retribuzioni riconosciute a chi lavora nel sociale.

Nel momento in cui scriviamo è in corso la trattativa per il rinnovo del contratto nazionale della cooperazione sociale che riguarda oltre 400mila lavoratori impegnati proprio nei settori socio-sanitario, assistenziale, educativo e di inserimento lavorativo di persone fragili. Fra loro ci sono tanti operatori socio sanitari ed educatori (per cui è necessaria una laurea), che ad oggi percepiscono fra gli 8,90 e i 9,66 euro l’ora (giusto per avere un punto di riferimento la discussione pubblica di questi mesi è attorno a un reddito minimo di 9 euro). Nel caso la trattativa si chiudesse con un incremento retributivo, queste persone non avrebbero però la certezza che gli venga riconosciuto perché spesso succede che le amministrazioni locali nei capitolati economici delle gare non riconoscano (o riconoscano con grande ritardo) gli aumenti di stipendio, anche se previsti nel contratto nazionale.


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Il motivo? Sempre lo stesso: i comuni sono alla canna del gas. Risultato: a fronte di motivazioni umane ed ideali, a chi lavora nel sociale a 1.200/1.400 euro al mese con scarsissime possibilità di crescita nel corso della carriera è chiesto di sopravvivere sobbarcandosi incarichi diversificati per costruirsi uno stipendio accettabile. Giusto per fare qualche esempio: supporti educativi in realtà diverse, più interventi domiciliari in famiglie residenti in territori distanti; forme di lavoro a cottimo imposte dalle stazioni appaltanti che non riconoscono il lavoro scolastico se per esempio lo studente è assente; servizi residenziali altamente impegnativi con indennità per lavoro notturno decisamente basse. Il delta fra remunerazioni così povere e incompatibili a sostenere progetti di vita e di famiglia a lunga scadenza è esattamente il contributo al sostentamento del welfare che lo Stato e chi lo governa “impone” a chi sceglie di lavorare nel sociale in organizzazioni non pubbliche.

Mancano i fondi si dirà. Mica tanto vero. Il ministero dell’Economia e delle Finanze per fare un esempio restando nel perimetro della spesa per il welfare ha da poco appostato 5 miliardi per il rinnovo dei contratti pubblici (circa 170 euro in più in busta paga al mese) che andranno, e ci mancherebbe altro che non fosse così, anche ai dipendenti pubblici impegnati nei servizi educativi e sociali. Per chi invece si occupa delle stesse mansioni di interesse pubblico ma lo fa al di fuori del perimetro della Pa non solo non è stato previsto nulla, ma nemmeno ci si è posti il problema. E al silenzio del Governo corrisponde quello delle opposizioni che, al di là di qualche timida dichiarazione (specie a livello locale) non hanno mai messo in agenda iniziative su questi temi.

La sofferenza dei lavoratori del sociale, e lo dimostrano le tante segnalazioni che continuano ad arrivare in redazione, è sempre più acuta. Se la politica di maggioranza e di opposizione, nazionale e locale, continuerà a girarsi dall’altra parte, se ne dovrà prendere le responsabilità. La misura è colma.

IL CONVEGNO

Come detto sta affiorando una emergenza nazionale, che nei prossimi mesi assumerà caratteri ancora più gravi: una vera e propria “fuga” dalle professioni della cura nel mondo socio-sanitario e dell’assistenza sociale (oss, asa, infermieri, educatori) proprio nel momento in cui i tassi di povertà, disagio e ed esclusione sociale sono in crescita.  Come affrontare e frenare questo fenomeno che rischia di mettere in ginocchio in primis le fasce di popolazione più fragili e i sistemi di welfare municipale? Per affrontare il tema VITA insieme al comune di Milano promuove un incontro (Lavoro sociale, lavoro povero?) venerdì 26 gennaio dalle 11 alle 13,30 nell’ambito del Forum del Welfare della città di Milano presso Base in via Bergognone 34. (qui il programma completo e le modalità di partecipazione gratuita).


Interverranno:
Stefano Granata, presidente di Federsolidarietà/Confcooperative
Eleonora Vanni, presidente di Legacoopsociali
Cristina Palmieri, direttore del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università di Milano – Bicocca
Rossella Sacco, portavoce del Forum del Terzo settore di Milano 
Simona Regondi, segretario dell’ordine degli assistenti sociali della Lombardia
Luca Stanzione, segretario della Cgil di Milano
Marco Bentivogli, esperto di lavoro e cofondatore di Base Italia
Lamberto Bertolè, assessore al welfare del comune di Milano

Modera:  
Stefano Arduini, direttore di VITA

In apertura, un’operatrice di Sacra Famiglia con alcune ospiti della Rsa Borsieri di Lecco. Foto: Stefano Pedrelli dal numero di Vita “Lavoro sociale, lavoro da camiare”, maggio 2022

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