Aging

Caro Biden, non abbiamo ancora capito che cosa significhi invecchiare

«Non abbiamo ancora capito che cosa significhi invecchiare in un contesto di longevità in salute e di malleabilità dell’invecchiamento. Anzi, continuiamo solo a vedere l’invecchiamento come un problema». Nicola Palmarini, responsabile del National Innovation Centre for Ageing del governo britannico, propone una riflessione a tutto tondo su quello che manca per una politica della longevità efficace

di Sabina Pignataro

Nicola Palmarini si occupa di longevità da oltre trent’anni: prima al Mit-Massachusetts Institute of Technology, ora come responsabile del National Innovation Centre for Ageing del governo britannico. È anche l’esperto che ha creato la rete City of Longevity, una piattaforma in cui le amministrazioni locali all’avanguardia nell’ambito della longevità possono scambiarsi le best practices.
Con lui commentiamo la scelta di Joe Biden di ritirare la sua candidatura per la corsa alla Casa Bianca, e parliamo dei moltissimi stereotipi legati all’invecchiamento.  «Confondere il passo indietro di Biden con un beau-geste di un vecchio confuso è forse troppo semplicistico», osserva. «Non abbiamo ancora capito che cosa significhi invecchiare in un contesto di longevità in salute e di malleabilità dell’invecchiamento. Anzi, continuiamo solo a vedere l’invecchiamento come un problema per gli individui che invecchiano e una minaccia per le società che devono sostenere l’aumento dei costi sanitari connessi e i relativi sistemi pensionistici. Ecco, il lavoro sarà la piattaforma definitiva che ribalterà tutte le nostre convinzioni legate all’età». Ad esempio, «Non sono forse i Baby Boomer ad aver inventato Internet, il GPS, lo smartphone, l’intelligenza artificiale, le auto a guida autonoma? E loro sono tra noi, loro siamo noi ancora qui ad inventare il futuro». 

Il passo indietro di Biden ha trovato unanimi apprezzamenti, in particolare dopo quel confronto elettorale tra Biden e Trump dello scorso 27 giugno, in cui l’attuale presidente è apparso – hanno scritto in tanti – come vecchio e confuso. Il suo è stato un passo indietro poco usuale. Come ne pensa?

Senza entrare nelle dinamiche politiche statunitensi confondere il passo indietro di Biden con un beau-geste di un vecchio confuso è forse troppo semplicistico. C’è una macchina di data analysis alle spalle, lanciata in modo così sofisticato ai tempi della prima elezione di Obama (la cosiddetta “The cave”) che ha iniziato a intercettare gli elettori come individui e a lavorare per aggregare le proiezioni sulle loro opinioni e sui loro comportamenti, fino a rivelare un’immagine composita di tutti i cittadini.

Quindi cosa rappresenta per lei?

C’è prima di tutto una scelta di opportunità politica per cui non sappiamo davvero se e quanto l’apparente compromissione cognitiva di Biden sia stata strumentalizzata o meno dall’intero ecosistema. Sarà anche poco usuale, ma anche un Papa che aveva deciso di fare il pensio-Santità a mezzo servizio non l’avevamo mai visto. Il mondo cambia, cambia per opportunità non necessariamente visibili in superficie.

Dietro questa scelta pare nascondersi uno stereotipo: l’anziano sembra una persona da rottamare. Eppure, lei da anni insegna proprio il contrario. Lo ha fatto in un suo spassosissimo, ma serissimo libro, “Immortali – Economia per nuovi highlander”(Egea)

Ho scritto quelle 210 pagine oltre 7 anni fa e non credo ci sia molto da aggiornare se non qualche statistica e qualche best practice emersa nel frattempo. Il tema di fondo resta lo stesso. Siamo terribilmente ageisti e Biden non ha fatto altro che rafforzare la convinzione della stragrande maggioranza di noi che non vedevano l’ora di dire quanto i vecchi siano così inutili, obsoleti: un peso per questa società così moderna e così proiettata nel futuro

Siamo terribilmente ageisti e Biden non ha fatto altro che rafforzare la convinzione della stragrande maggioranza di noi che non vedevano l’ora di dire quanto i vecchi siano così inutili, obsoleti.

Nicola Palmarini

Questo significa che tutti gli 81enni dovrebbero farsi da parte?

 L’invecchiamento colpisce tutti in modo diverso e il mondo vive della esperienza e della saggezza delle generazioni più anziane tanto quanto delle nuove prospettive dei giovani. Il balletto sulla questione è chiaro. Dopo un secondo, il giovane Trump è diventato un vecchio rispetto alla Harris che, tuttavia, è chiaramente già vecchia rispetto a JD Vance. Vogliamo davvero andare fino in fondo a questa pantomima? Vogliamo davvero che siano l’ageismo o l’abitudinarietà a dettare il fixing dei valori in campo? Non ho nessuna intenzione di stare qua a fare il paladino dei vecchi ed elencare i fenomeni che fanno maratone, scalano montagne, nuotano per ore o si presentano sistematicamente alle Olimpiadi per battere qualche record. Non mi interessa, preferisco solo suggerire di guardare chi sono le persone attorno a noi nella società della longevità in cui stiamo evolvendo: chissà quando ci accorgeremo che siamo noi stessi quei vecchi di cui tanto ci lamentiamo. Non esiste più un “quelli là”, un “loro”. Quel “loro” siamo e saremo sempre più “noi”.

Sembra che non ce ne siamo accorti però

Agli anziani il marketing delle aziende continua, soltanto, a proporre montascale elettriche, colle per dentiere e calzascarpe allungabili. Quando, invece, vogliono, o – meglio- preferisco dire “vogliamo”, amare, scoprire, fare sesso, viaggiare, lavorare. Non abbiamo ancora capito che cosa significhi invecchiare in un contesto di longevità in salute e di malleabilità dell’invecchiamento. Anzi, continuiamo solo a vedere l’invecchiamento come un problema per gli individui che invecchiano e una minaccia per le società che devono sostenere l’aumento dei costi sanitari connessi e i relativi sistemi pensionistici. Ecco, il lavoro sarà la piattaforma definitiva che ribalterà tutte le nostre convinzioni legate all’età.

Tutti questi stereotipi (che ci fanno pensare agli ultra-sessantacinquenni come accumulatori di malattia e sofferenza, in un viaggio verso una destinazione certa (la morte) non trovano fondamenta in quello che accade attorno a noi, nelle strade delle città, nei numerosi canali tematici di Instagram dedicati alle granny dai capelli bianchi». (Si veda l’hashtag #grannyhair). Cosa ne pensa?

Tutto sta cambiando, l’accelerazione data dai canali digitali ha permesso di mettere a fattor comune, ad esempio, che siamo letteralmente alle porte di un nuovo #metoo con le modelle che celebravamo come icone di bellezza negli anni Ottanta diventate paladine di una nuova battaglia come quella della discriminazione nei confronti dell’età. D’altronde sono arrivate a sessant’anni anche loro e si sono accorte di cosa significa essere invisibili. Ma senza i social tutto questo sarebbe stato lentissimo, compresa la violenza tra fronti opposti amplificata da hashtag tipo #OKBoomer. Il canale accelera tutto, nel bene e nel male.

In Italia però il tema della mancanza di supporto, servizi, strutture, politiche pubbliche dedicate è molto acceso. La riforma per la non autosufficienza ne è un esempio. È una tipicità italiana? E quali soluzioni immagina?

Non si può generalizzare, ma la faccio brevissima su questo punto: manca una politica della longevità. Una politica capace di vedere l’intersezione e collocare il processo di invecchiamento globale (di cui in Italia siamo chiaramente un’avanguardia), il tema dell’aspettativa di vita in salute, il calo delle nascite, una visione della sanità longitudinale, l’equità sociale, la riforma del lavoro, la questione climatica, la capacità di sviluppare ed esportare innovazione, tutto nella stessa cornice. Non pretendo certo che qualcuno mi venga dietro, mi rendo conto della complessità della visione, ma la visione è inequivocabilmente questa. E mentre ne (o meglio “non” ne) discutiamo l’opportunità di una leadership legata alla longevità e quindi di poter generare ritorno per la società e per l’economia la sta prendendo qualcun altro in Europa, la Spagna ad esempio.

Il tema del passaggio generazionale è un altro dei nodi importanti di questa scelta. I giovani spesso dicono : “non li lasciano spazio”. Gli anziani ribattono: «non c’è nessuno di valido”.  Cosa ci insegna (o non ci insegna) la vicenda di Biden sulle leadership alle prese con la transizione generazionale?

Cito sempre una ricerca che abbiamo fatto con il mio team dove alla domanda speculare: “come pensi siano i giovani” chiesta ai vecchi e “come pensi siano i vecchi” chiesta ai giovani, è emersa una risposta comune: “arroganti”. Che dice tutto, ovvero si tratta di un gioco a somma zero. Molta della narrativa di conflitto è generata dalla politica che ha bisogno di dire come la carenza di posti di lavoro sia dovuta a quei vecchi che ti stanno là davanti, quando sappiamo benissimo che non esista una ricerca capace di sostenere che per un nuovo pensionato si liberi un posto di lavoro. E che insiste con la scelta più anacronistica che mai di prepensionare chiunque quando andrebbe fatto esattamente il contrario. Chissà quanto ci vorrà ancora perché si celebri pubblicamente, politicamente intendo, il contributo di ogni individuo, a prescindere dall’età o dal livello di abilità. Sfidiamo i nostri pregiudizi e impegniamoci per una società in cui tutti, giovani e anziani, siano visibili e valorizzati. Sarebbe la svolta epocale necessaria per mettere le fondamenta della società della longevità.

Lei ha detto: «Se pensate poi che un vecchio sia lento, non capisca nulla e sia senza cervello, vi sbagliate». Cosa intendeva?

Basta andare a dare un’occhiata alle statistiche relative ai brevetti rilasciati negli ultimi dieci anni per renderci conto di come la maggior parte siano stati originati da persone tra i 45 e i 65 anni. O di come le start-up che funzionano abbiano fondatori e board con una età ben superiore a quell’idea di giovanilismo che ci eravamo fatti e che per pregiudizio associa l’innovazione alla giovane età. Non sono forse i Baby Boomer ad aver inventato Internet, il GPS, lo smartphone, l’intelligenza artificiale, le auto a guida autonoma? E loro sono tra noi, loro siamo noi ancora qui ad inventare il futuro. Non da soli però: insisto col dire che l’unica visione possibile per quello stesso futuro a cui tutti ambiamo fatto di un mondo pulito, in pace, capace di affrontare i grandi temi sociali e di equità, risiede nell’incontro e non nello scontro tra generazioni.

Non sono forse i Baby Boomer ad aver inventato Internet, il GPS, lo smartphone, l’intelligenza artificiale, le auto a guida autonoma? E loro sono tra noi, loro siamo noi ancora qui ad inventare il futuro. 

Nicola Palmarini

Christine Lagarde, ex presidente del Fondo monetario internazionale e ora presidente della BCE, la quale, anni fa, riferendosi a se stessa, aveva detto «Si può essere nonna, avere 63 anni e i capelli fieramente bianchi, e fare ancora faville a letto».  Ci sono differenze di genere nella percezione dell’invecchiamento?

Eccome se ci sono. Essere donne ed essere vecchie – tecnicamente un “double jeopardy”, una doppia sfida. Basta guardare cosa succede nei luoghi di lavoro: non solo sei donna, sei pure vecchia! Come osi essere ancora qui?! E, certo, se fai la notaia, l’avvocata, la giudice o la presidente del Fondo Monetario quei capelli grigi forse possono anche donare al ruolo, ma in qualsiasi altro contesto la battaglia delle donne per non apparire obsolete secondo gli standard degli uffici “moderni” è una sfida quotidiana. Giusto per restare in tema, ognuno è libero di colorarsi i capelli come vuole, ma quando è obbligato a farlo per essere accettato dal contesto la questione è diversa. Ma questa è solo la superficie. Per una donna diventata madre tornare al lavoro è una sfida durissima. Soprattutto per chi ha magari scelto di lasciare il proprio posto: trovarne uno nuovo è praticamente impossibile. “Vecchia” e madre, un binomio mortale nell’A.D. 2024.

“Vecchia” e madre, un binomio mortale nell’A.D. 2024.

Nicola Palmarini

Rallentare l’invecchiamento mantenendo una vita più lunga in buona salute psicofisica è un tema di grande attualità, una sfida per i principali centri di ricerca e università in tutto il mondo. Qualche mese fa lei ha presentato a Milano La rete City of Longevity, da lei creata. Di cosa si tratta?

Le città sono più esposte alle conseguenze dei cambiamenti sociali e demografici legati all’invecchiamento, a causa della natura più rapida del cambiamento, del tenore di vita, della composizione sociale più complessa e del maggior grado di progettazione e iniziativa umana che il loro funzionamento richiede (ad esempio in termini di mobilità, ambiente digitale e ambiente costruito). Per questo non solo hanno il ruolo fondamentale nel definire le modalità di reazione alla nostra società che invecchia, ma hanno anche l’opportunità di suggerire le “proposte” anziché le “risposte” a questo fenomeno. È arrivato il momento, infatti, di avviare una nuova fase capace di farci uscire da una “passività reattiva” in cui le città “si adattano” a una popolazione che invecchia e dare vita ad “innovazioni proattive” per il secondo miliardo di persone over 60 che abiterà il pianeta dal 2050 e di cui quasi un miliardo e mezzo vivrà nelle città. E, soprattutto, per immaginare come loro e quelli che seguiranno potranno vivere la normalità dell’invecchiare – in salute fisica, psicologica, sociale ed economica e in una società consapevole – i prossimi decenni che abbiamo davanti.

Quanto è diffusa questa rete?

City of Longevity è un programma che va oltre le parole e le raccomandazioni. Lanciato a luglio 2023, il programma Città della longevità è basato su un toolkit per permettere a planners, policy makers – insieme ai cittadini – di avere a fuoco i determinanti della longevità e disegnare le azioni necessarie, rispettose degli aspetti culturali e dei touch point locali, per consentire alle città di stimolare e offrire comportamenti più sani a residenti, visitatori e turisti. Con, ad oggi, oltre 15 città da 8 Paesi, il programma interseca diversi SDG delle Nazioni Unite e integra già i parametri di Qualità della Vita che verranno rilasciati dall’ONU lungo il 2024 e infatti siamo stati invitati a presentare il nostro lavoro durante gli eventi collaterali all’assemblea delle Nazioni Unite a New York il 20 settembre di quest’anno.

Foto in apertura, Nicola Palmarini


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA