Disabilità
Scuole speciali, addio: perché lo abbiamo fatto
Nel 1977 l'Italia ha abbandonato scuole speciali e classi differenziali, per una scuola inclusiva. Le ragioni di quella scelta valgono anche oggi. Con un'attenzione: «Nell'inclusione non c'è una ricetta buona per tutti i contesti: quello è solo il primo step, l'inserimento». In dialogo con Catia Giaconi, presidente della Società italiana di pedagogia speciale
Franca Falcucci lo aveva chiarissimo. «Ho sempre creduto nella scuola come luogo dove si sviluppano le potenzialità delle persone e nel diritto di tutti ad essere protagonisti della propria crescita», mi disse nel 2007, quando la cercai per un’intervista in occasione dei trent’anni dalla legge che porta il suo nome. Una frase semplice, che però va dritta al cuore della questione. Classe 1926, prima ministra dell’istruzione donna nel 1982, nel 1975 da senatrice ha presieduto la commissione parlamentare sull’integrazione scolastica degli alunni handicappati (il termine che si usava allora era questo). Le conclusioni di quel lavoro, note come “Documento Falcucci”, sono le radici dell’inclusione scolastica in Italia. «Non ricordo nessuna battaglia campale. Certo era cominciata che gli handicappati in classe nessuno li voleva, c’erano molte resistenze. Il problema non era tanto dentro il mondo della scuola, ma fuori: culturale, nelle famiglie. Però ci abbiamo lavorato molto, prima di fare la legge abbiamo preparato a lungo il terreno, quindi alla fine ci fu un clima positivo, anche nella fase attuativa, che poi ho vissuto direttamente da ministro».
L’inclusione scolastica dà attuazione all’articolo 3 della Costituzione, che dice tutti i cittadini hanno pari dignità e sono uguali di fronte alla legge
Catia Giaconi, presidente Sipes
In questi giorni è importante tornare a quelle radici, al perché l’Italia ha fatto – a differenza di altre nazioni, non per questo tacciabili di essere ghettizzanti o retrograde – la scelta radicale di accogliere tutti i bambini, con o senza menomazioni, con o senza problematiche di altra natura e origine, nelle classi di tutti, nelle scuole “normali”. Lo abbiamo chiesto a Catia Giaconi, docente di didattica e pedagogia speciale all’Università di Macerata, presidente della Società italiana di pedagogia speciale-SipeS (qui il documento “Inclusione, scolastica e non solo” con cui la società ha replicato a Ernesto Galli Della Loggia su questi stessi temi).
Professoressa, possiamo ricordare i valori e le ragioni per cui il nostro Paese, nel 1977, ha scelto la strada della scuola per tutti?
Il primo motivo è dare attuazione all’articolo 3 della Costituzione, che dice tutti i cittadini hanno pari dignità e sono uguali di fronte alla legge. Nel documento che cita scriviamo che «avviandosi su questa strada, la scuola italiana ha voluto pensarsi come crogiolo di una società di uguali, capaci di esercitare competenze di collaborazione e rispetto reciproco e sufficientemente forti e preparati da poter perseguire obiettivi di pieno, autonomo e consapevole sviluppo socio-culturale». Per creare una cittadinanza attiva il punto da cui partire è la scuola, che ha il compito di valorizzare le differenze e di permettere a ciascuno di esprimere al meglio le proprie capacità. L’altro punto da evidenziare è il valore, per tutti, dell’incontro tra persone con disabilità e senza disabilità: uno dei grandi valori dell’inclusione è proprio l’incontro tra le persone. C’è un tema di reciprocità che non è per nulla secondario: la scuola di tutti è il catalizzatore di un nuovo concetto di formazione della persona alla cittadinanza attiva, proprio perché a scuola si incontrano situazioni in grado di creare un pensiero critico, oggi tanto necessario.
L’incontro quotidiano con la diversità fa bene a tutti: come, al di là della teoria o degli ideali?
È qualcosa di molto concreto, basti pensare a quante volte – solo negli ultimi mesi – si è parlato della necessità di avere un’educazione dedicata all’affettività, alle emozioni, alle soft skills: la scuola è anche il luogo dove si impara a dialogare con gli altri e dove tutti gli studenti imparano a capire come “funzionano” i diversi profili di funzionalità. O a come il lavoro sul metodo di studio, che è il primo strumento compensativo per chi ha dei disturbi dell’apprendimento, serva a tutti. La scuola di tutti, poi, è giocoforza la scuola dalle diverse metodologie didattiche, penso per esempio al cooperative learning, che porta gli insegnanti a formarsi su metodologie didattiche innovative, che prevedono attività molto più interattive, che sollecitano la capacità critica, la gestione dei conflitti, le abilità sociali.
La scuola di tutti è giocoforza la scuola dalle diverse metodologie didattiche
Cosa volevamo superare, guardando invece più direttamente agli studenti con disabilità?
Intanto è importante ricostruire le tappe, delineante da tre parole chiave: inserimento, integrazione e inclusione. Il primo pilastro, l’inserimento, voleva superare la logica dell’esclusione e della separazione, inserendo gli studenti nelle classi di tutti e dando occasioni di partecipare insieme agli altri. L’integrazione è stato l’obiettivo che ha spinto a raffinare la formazione degli insegnanti e a trovare strategie per fare partecipare attivamente tutti gli alunni: non ci siamo accontentati del semplice inserimento. Qui hanno giocato un ruolo importante – è bene ricordarlo – la scienza e la ricerca degli studiosi di pedagogia speciale e di didattica dell’inclusione che si è declinata non solo in un’azione di formazione degli insegnanti ma anche di ricerca azione nei contesti reali, per renderli attivi e partecipativi. Il terzo step è l’inclusione, che passa dalla formazione di tutti gli insegnanti, perché vengano valorizzati tutti gli studenti. Quello che vorrei evidenziare è che la didattica inclusiva ha alle spalle un grande lavoro di ricerca per attivare nuove metodologie didattiche in grado di valorizzare la partecipazione attiva di ciascuno e di favorire gli apprendimenti.
Ha parlato più volte della dimensione sociale e di cittadinanza attiva, solo ora degli apprendimenti. Una delle obiezioni al modello inclusivo che talora gli stessi genitori e insegnanti muovono è proprio quella per cui la dimensione di socializzazione si può recuperare altrove, mentre per gli apprendimenti serve un contesto specifico che sappia esattamente come “tirar fuori” il meglio dai ragazzi con disabilità, specie se la disabilità è complessa.
C’è un valore della reciprocità che non potrebbe essere recuperato in una condizione di scuola speciale. La ricerca didattica per esempio ha molto valorizzato il ruolo del peer tutoring, mostrando come a volte il tutor alla pari sia più efficace dello stesso insegnante: e non è detto che il tutor non posa essere un alunno con disabilità. A questa obiezione, che capisco, rispondo ricordando la necessità di non perdere di vista la rete. Tutti – anche le famiglie – sappiamo che la presa in carico di un ragazzo con disabilitò è a 360 gradi e che la scuola si inserisce in una rete che prevede altri spazi cui il ragazzo fa abilitazione e riabilitazione e in cui lavora sul potenziamento del suo profilo di funzionamento. Voglio dire che la scuola di tutti non toglie occasioni per fare questo lavoro di potenziamento di cui il ragazzo ha necessità. Certo, questi spazi potrebbero esser potenziati. D’altro canto è sbagliato ridurre la scuola a luogo di socializzazione. La dimensione di rete è fondamentale e far funzionare la rete è senza dubbio un grande lavoro, ma sempre più necessario. Credo davvero che un nodo per affrontare la questione dell’inclusione scolastica sia oggi proprio la funzionalità di questa rete, fino all’età adulta. Oggi esiste un percorso culturale che tocca tutte le sfere della vita della persona con disabilità, arrivando fino all’università e al lavoro: se tornassimo alle scuole speciali rischiamo che poi fuori da esse ci sia un vuoto. Arretrerebbe tutto. Questa attenzione al progetto di vita – che con la nuova legge dovrebbe crescere ulteriormente – ha fatto sì per esempio che oggi in università gli studenti con disabilità siano arrivati al 2%, ma penso anche alla diversa sensibilità e alle diverse opportunità che oggi ci sono nel mondo del lavoro.
Un nodo per affrontare la questione dell’inclusione scolastica oggi è la funzionalità della rete, fino all’età adulta. Se tornassimo alle scuole speciali rischiamo che poi fuori da esse ci sia un vuoto
Qual è il bilancio, dopo 45 anni, con gli occhi di una comunità scientifica che fa ricerca sul campo e non con l’occhio dell’esperienza personale?
C’è ancora un fraintendimento da bypassare, che si radica nella logica della “prima fase”, quella dell’inserimento per superare la separazione: quella prospettiva ci porta a cercare “ricette” che funzionano in ogni contesto, ma non è così. La logica dell’inclusione punta invece a supportare i contesti e gli insegnanti per progettare soluzioni adatte a quello specifico contesto: quella classe, quelle persone. È un lavoro qualitativo più che quantitativo, che poi ci permette anche di fotografare quali sono le resistenze su cui lavorare per rimettere in moto un nuovo modello formativo per insegnanti che da tanti anni sono sul campo: come Sipes abbiamo fatto una ricerca nazionale, che abbiamo presentato l’anno scorso, sulle strategie didattiche che i docenti ritengono più inclusive. Sono ricerche che supportano il cuore dell’innovazione didattica. Un’altra area di lavoro è mettere in sinergia le reti che dovrebbero sorreggere il progetto di vita, un’azione faticosa e importante.
C’è un fraintendimento da bypassare, che ci porta a cercare “ricette” che funzionano in ogni contesto. Non è così. La logica dell’inclusione punta invece a supportare gli insegnanti per progettare soluzioni adatte a quello specifico contesto: quella classe, quelle persone
Che dire oggi alla politica e ai cittadini?
Intanto che la disabilitò non è da strumentalizzare a fini elettorali, per rispetto a tutti i protagonisti dell’inclusione: alunni, famiglie, insegnanti, chi fa ricerca su questi temi. La politica che guida l’Italia e l’Europa non può tornare indietro sul modello di eccellenza che altri Paesi guardano con ammirazione.
Come migliorare l’impatto dell’inclusione scolastica?
Non proponendo forme di “estremizzazione” come tornare alle classi speciali o far scomparire l’insegnante di sostegno: c’è un contesto normativo che dà strumenti operativi importanti per lavorare bene sull’inclusione. Prima di cambiare, dobbiamo attuare quelle cose che nella legge sono già previste ma che sono ancora nel potenziale della scuola, a cominciare dal modello di interazione tra insegnanti di sostegno e insegnanti di classe. Occorre fare ricerca, raccogliere dati, vedere le evoluzioni. Sarà la ricerca a dire, poi, quale strada prendere.
Foto di Pavel Danilyuk su Pexels
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