C ‘ è una parola che aleggia implacabile sul futuro della scuola italiana. La pronunciano tutti, magari con diverse accezioni: è la parola merito. Questa la diagnosi: il sistema dell’istruzione italiana si è appiattito su un egualitarismo che non fa bene a nessuno. Che deprime i migliori, dequalifica la professionalità di chi insegna, non fornisce stimoli né ai singoli né agli istituti. Introdurre invece criteri di merito con tecnicalities su cui in tanti si stanno sbizzarrendo, premierebbe finalmente chi lavora bene, chi studia, chi è più organizzato. Il ragionamento non fa una grinza: come ha detto il presidente Napolitano, «per avere un’Italia migliore abbiamo bisogno di una scuola migliore, le condizioni del nostro sistema scolastico richiedono scelte coraggiose di rinnovamento: non sono sostenibili posizioni di pura difesa dell’esistente».
Il mondo cambia e vive di continue accelerazioni; non è pensabile che il mondo della scuola assista senza accettare la sfida di questi cambiamenti. Ad esempio, il principio che lega i finanziamenti alla qualità dei servizi, soprattutto a livello delle università, sembra un meccanismo non rinviabile. «Le gerarchie accademiche oggi non corrispondono a gerarchie di merito, ma al perpetuarsi di posizioni di privilegio», ha scritto Tullio Jappelli, lanciando le sue «Tre proposte per l’università».
Dunque il merito. Anche molti studenti che hanno attaccato la riforma sono d’accordo su questo, come recitavano gli stessi slogan: «Non serve uscire in piazza, bisogna entrare nel merito». Ma proprio sulla parola c’è da intendersi. Nei giorni scorsi, ad esempio, un editorialista del Corriere della Sera , Paolo Franchi, ha proposto un punto di vista interessante e quasi paradossale. «La scuola è l’ultima comunità», questa la sua tesi per spiegare la compattezza con cui tutti, con accenti diversi, si sono sollevati davanti alle iniziative del governo. «La scuola è, in primo luogo, una grande comunità in un Paese in cui tutte o quasi le grandi comunità sono venute meno? È una comunità che non si lascia spiegare dalla decimologia o dai rapporti dell’Ocse».
Chiediamoci il perché di tutto questo. Perché un’istituzione stanca e sotto assedio susciti comunque un tale senso di appartenenza. Se rispondiamo a queste domande potremo farci un’idea più larga e più legittima di merito. Perché il merito non è solo quello studiato a tavolino da tecnici abilissimi nello spacchettare le esperienze e nel costruire parametri rigidi di valutazione. Il merito non può essere una faccenda da laboratorio pedagogico, che con parametri astratti premi la qualità e le eccellenze seconda una forma mentis molto americana. Una sorta di mannaia minacciosa calata su istituzioni chiamate a gestire processi comunque delicati.
Ci vuole un’idea più larga e più completa di merito. In questa idea devono entrare anche la capacità di inclusione sociale, il saper promuovere integrazione, il far crescere individui capaci di relazionarsi con l’altro e con il diverso. Se questa è la sfida del “merito”, va certamente accettata.
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