Formazione

Scuola, gli adolescenti sono lontani da un pretesto di protesta

«Gli studenti hanno iniziato a manifestare il loro dissenso verso un esame di Stato pressoché inutile», scrive Gianmarco Proietti docente e già assessore alla pubblica istruzione del comune di Latina. «Siamo di fronte a una generazione di adolescenti che negli ultimi 18 mesi ha compiuto un incredibile sforzo adattivo, facendo a meno della soddisfazione di bisogni vitali, con un senso di responsabilità spesso superiore a quello di molti adulti»

di Gianmarco Proietti

Gli studenti hanno iniziato a manifestare il loro dissenso verso un esame di Stato pressoché inutile (non garantisce l’accesso alle Università e non permette l’iscrizione agli albi professionali) e immediatamente, più o meno illustri pensatori, scrittori e anche insegnanti, hanno iniziato a commentare rifacendosi alla scuola delle regole, quella della presunta serietà, delle prove “difficili”, semplificando la complessità del contesto e delle richieste.

Eppure c’è un dato che come adulti capaci di responsabilità educativa, non possiamo permetterci di perdere, il dato inequivocabile è che ci sono delle ragazze e dei ragazzi consapevoli di vivere un disagio nel loro contesto scolastico di appartenenza, disagio che stanno mettendo a frutto per mantenere aperto un canale di comunicazione con chi nei loro confronti ha una responsabilità formativa ed educativa, comunicazione tesa a chiedere un di più di comunicazione e di relazione di qualità, che sia di ascolto e di rispetto, dicono.

Ecco che siamo ben lontani da un pretesto di protesta. Siamo di fronte a una generazione di adolescenti che negli ultimi 18 mesi ha compiuto un incredibile sforzo adattivo, facendo a meno della soddisfazione di bisogni vitali, con un senso di responsabilità spesso superiore a quello di molti adulti, che sta facendo perno su un profondo desiderio di vita e di benessere, per chiedere alle istituzioni scolastiche di rimanere in relazione, di costruire relazioni positive tra adulti e ragazzi, perché l’assenza di queste ultime è saggiamente percepita dalle ragazze e dai ragazzi del Liceo come l’ennesima privazione troppo onerosa da poter tollerare, troppo.

La scuola prima del Coronavirus rassomigliava ad un apparato industriale, ammalato di fordismo, all’interno del quale si svolgevano funzioni esecutive, regolate da procedure e tempi rigidi. Una scuola fuori contesto prima che oggi appare assolutamente inutile, nella consapevolezza, che deve essere chiara, che nel grande meccanismo, ogni ingranaggio è sostituibile.

Per questo, prima di partire (non di ri-partire) sarebbe stato opportuno prendersi un tempo, quel tempo che avrebbe consentito di predisporre le condizioni organizzative per progettare e gestire scuole flessibili e intelligenti. Scuole nuove, con nuove forme di orario e di organizzazione. La comunità educante avrebbe dovuto sforzarsi di progettare una risposta educativa complessa e nuova perché sapeva di dover affrontare un tempo completamente nuovo, mai vissuto prima.

Era necessario considerare, in questa strana epoca che tende a sopravvalutare la sicurezza sull’educazione, una rivisitazione delle norme e dei regolamenti interni alla scuola: sarebbe stato opportuno riconfigurare i sistemi regolamentari in modo tale da consentire spazi e tempi di sempre maggiore autonomia e responsabilità nella vita scolastica degli studenti (dando evidenza di queste scelte nei documenti sulla sicurezza, nei progetti educativi o Piani dell’Offerta Formativa).

Anche la famiglia doveva essere opportunamente coinvolta nel cambiamento di paradigma, in un nuovo contratto educativo che mettesse in chiaro le modalità entro le quali la scuola decidesse di educare gli studenti all’autoregolazione e alla responsabilità, allo sviluppo di competenze e alla relazione, entro un sistema sufficientemente sicuro.

Invece, da quanto leggiamo, si è preferiti ri-partire, come se i due anni tragicamente vissuti non fossero trascorsi, se non per lasciare qualche disinfettante sulla cattedra e qualche accesso secondario riscoperto. Si leggono note scritte con arrogante fastidio solo per la presenza dei genitori nel contesto scolastico, altre scritte con impulsività e rabbia perdendo la necessaria asimmetria del dialogo tra educatore e educato.

Le istituzioni scolastiche erano nella posizione di poter scegliere. E forse, voglio sperare, lo sono ancora. Oggi però non possiamo più permetterci una scuola che si autoesonera, non per trascuratezza ma per definizione, di avere a che fare con i processi educativi.

Come si legge in questo articolo Prove Invalsi: i risultati sono terribili ma non diamo la colpa (solo) alla Dad, riportando le parole di Marco Rossi Doria, presidente dell’Impresa Sociale Con i Bambini «A tenere di più in questi mesi è stata la scuola primaria che è riuscita ad affrontare meglio le difficoltà della pandemia. Quando si entra nell’adolescenza la situazione peggiora. La scuola primaria tiene di più e questo è dovuto alla tradizionale e maggiore capacità di relazione educativa che gli insegnanti alla scuola dell’infanzia e alle primarie sanno instaurare».

Le scuole possono scegliere di percepirsi esclusivamente in termini di ruoli e istituzioni: docente, dirigente scolastico o direttore, possono essere confinati alla dimensione del ruolo, della mansione da compiere, secondo quanto la norma stabilisce. Se sceglieranno di orientarsi in questo senso, saranno senz’altro ineccepibili, tecnicamente efficienti, ma anche tragicamente sostituibili. Se sceglieranno questa posizione, non incontreranno mai questi ragazzi e queste ragazze, non avranno orecchie per sentire e occhi per vedere, le loro parole resteranno medi e vaghi pretesti di protesta.

Ma se sceglieranno di incarnare i loro ruoli attingendo alle loro risorse personali, ai loro occhi e alle loro orecchie, alla loro cultura, ciceronianamente intesa, allora le parole di questi ragazzi e di queste ragazze suoneranno un’altra musica, più chiara e distinta: quella dell’armonia dell’interdipendenza tra adulti e giovani, quella che impegna i primi nell’ accompagnare i secondi ad affacciarsi alla vita, anche quando fa paura, sia ai primi che ai secondi.

*Gianmarco Proietti docente e già assessore alla pubblica istruzione del comune di Latina

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