Famiglia

Scuola e studenti fuori famiglia: quali strategie?

I ragazzi fuori famiglia spesso incontrano maggior difficoltà nel percorso scolastico. Quali sono i fattori protettivi? Meglio la famiglia affidataria della comunità. Meglio che l'intervento sia tempestivo, prima dei dieci anni. Meglio che il collocamento e la scuola siano stabili. I dati di una ricerca italiana verranno presentati nel convegno "Tutti insieme a scuola"

di Sara De Carli

Meglio la famiglia affidataria della comunità. Meglio che l'intervento sia tempestivo, prima dei dieci anni. Meglio che il collocamento e la scuola siano stabili. Sono questi i fattori di protezione dell'apprendimento per i bambini e i ragazzi che hanno vissuto esperienze difficili, in famiglie fragili o bisognose di sostegno. La professoressa Paola Ricchiardi, che insegna pedagogia sperimentale all’Università di Torino, domani presenterà i risultati di una indagine italiana svolta nell’anno scolastico 2021/22: lo farà nell’ambito del convegno “Tutti insieme a scuola” organizzato da Anfaa a Milano (Auditorium Don Giacomo Alberione, ore 9,30-16,30).

«La letteratura e la ricerca evidenziano che le esperienze sfavorevoli infantili hanno effetti negativi sull’integrazione scolastica e sull’apprendimento. I ragazzi – che siano in affido, in comunità o nelle loro famiglie – hanno spesso difficoltà importanti in almeno due o tre ambiti, che si riversano anche sulla scuola. Le difficoltà sono affettive, relazionali e cognitivo comportamentali: la scuola è una cartina di tornasole rispetto al malessere», spiega la professoressa Ricchiardi.

Se questo è il dato di realtà, quali sono i fattori di protezione e gli strumenti da mettere in campo? La prima evidenza è che il fattore che determina questi risultati a scuola non è l'allontanamento, risponde Ricchiardi. «Nel 2020 una ricerca di Sinclair con un campione enorme, ha paragonato le performance scolastiche di oltre 6mila minori in accoglienza con quelle di 20mila minori seguiti dai servizi per difficoltà familiari, che non ne hanno però determinato l’allontanamento. A sette anni le performance scolastiche risultano simili, ma poi nella scuola secondaria di secondo grado il gruppo di ragazzi rimasti in situazioni familiari con fattori di rischio, pur non gravi quanto quelle che avevano portato all’allontanamento, declina mentre al contrario quelli collocaati fuori famiglia migliorano, pur restando al di sotto delle performance dei coetanei che non vivono in situazioni familiari con elementi di rischio. L’accoglienza si rivela quindi un fattore protettivo. In particolare secondo Sinclair i bambini accolti prima dei 10 anni conseguono punteggi più bassi nelle prove nazionali a 7 anni, ma poi recuperano. Invece i minori per i quali sono stati disposti interventi tardivi mostrano esiti inferiori. Il cut off è proprio a 10 anni, come se rimanere per oltre dieci anni in un contesto a rischio rendesse poi troppo difficile il recupero».

Sono quindi fattori protettivi la possibilità di essere accolti al di fuori della famiglia d’origine, con una preferenza per l’accoglienza familiare; la tempestività di tale intervento di messa in protezione (prima dei 10 anni); la stabilità del collocamento e della frequenza scolastica; la presenza di un adulto di riferimento adeguatamente supportivo; l’accoglienza scolastica attenta; il genere femminile.

La professoressa sottolinea la stabilità: «una certa idea di collocamenti “mordi e fuggi” è in contrasto con quanto ci dice la ricerca, perché la vita è fatta di relazioni e le relazioni hanno bisogno di tempo. Serve stabilità anche quando i ragazzi rientrano a casa, mantenere le relazioni con chi li ha cresciuti per un lungo periodo, siano una famiglia o degli educatori. Stabilità anche con i fratelli biologici, essere insieme è un fattore protettivo». Come si spiega invece il fatto che i ragazzi in affido famigliare a scuola vanno meglio dei compagni in comunità? «Non è che sia tutta “colpa” della comunità. Nella ricerca che abbiamo fatto in Piemonte, con le risposte di genitori affidatari (61) ed educatori (50), abbiamo visto che le condizioni di ingresso fra i due gruppi sono abbastanza differenti: i ragazzi arrivano in comunità più grandi (in media entrano in famiglia a 8 anni e mezzo contro i 12 e mezzo dei ragazzi in comunità), c’è una percentuale doppia di stranieri di prima generazione (22% di stranieri di prima generazione in comunità con l’11% in affido), ci sono più maschi (7% in più di femmine in affido) e più ragazzi con disabilità, c’è meno stabilità (i minori affidati sono accolti in media da 5 anni contro l’anno e mezzo dei minori in comunità). Tutte cose che incidono. Dopodiché in famiglia la stabilità del collocamento è maggiore, come pure sembra maggiore la capacità di entrare in relazione con la scuola, che risulta influire sull’andamento scolastico: 75% di buone collaborazioni con la scuola per i minori affidati e 57% in struttura», afferma la professoressa.

Fra le strategie da mettere in campo, quindi, c’è anche il potenziamento della formazione universitaria degli educatori, che risultano sensibili alla disabilità e ai DSA ma che dicono di avere poche strategie rispetto alle difficoltà aspecifiche dei ragazzi, legate all’incuria e alla poca stimolazione che hanno ricevuto nei primi anni di vita. Occorre lavorare di più su tutte le strategie di potenziamento cognitivo». Ma anche quella degli insegnanti, perché siano consapevoli delle caratteristiche e delle difficoltà dei ragazzi fuori famiglia, così da poter mettere in campo una corretta accoglienza: «emotiva e relazionale prima di tutto, quella cognitiva poi arriverà».

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