Cultura

Scuola, casa mia. Passioni di una prof

Il libro straordinario di una docente romana. Quasi una lettera aperta

di Maurizio Regosa

«Le donne sono molto coraggiose, concrete, più capaci di riorganizzarsi e interrogarsi di quanto ci si immagini». Così Giulia Alberico ha deciso di raccontare la sua esperienza nelle aule.
«La scuola incanta. È relazione. Come la vita.
Può anche dare allegria…»
La sua “lettera di una professoressa”, Giulia Alberico l’ha scritta con levità: Cuanta pasión! (edito da Mondadori) è un affresco composto da una trentina di episodi, al tempo stesso divertito e serio, di cosa voglia dire insegnare in questa modernità rumorosa. Di quanta passione – appunto – e fatica siano necessarie. Di quanto realismo. E consapevolezza. E amore. Perché un’aula, sostiene Alberico, non è un mondo a parte: «La scuola incanta. È relazione. Come la vita. Può dare allegria, può sempre succedere qualcosa di imprevisto. Tanto sono umbratile per il mio, tanto sono ottimista con i ragazzi».
Vita: Nel libro spesso ricorre l’idea di rendere sensato lo stare insieme.
Giulia Alberico: La scuola è per lo più rappresentata solo per eventi drammatici. Come quotidiano vivere è poco conosciuta. Quanto alla ricerca di senso è importante in tutti i rapporti umani. Quel che mi spaventa nei ragazzi è la noia, il frequentare perché è un obbligo. È una splendida occasione di conoscenza non foss’altro di sé. Sono anni fondamentali. Altra cosa è chiedersi se la società dia senso a quest’esperienza. La scuola non è stata mai una priorità. Non paga in termini di consenso e notorietà. Una scelta miope: in termini di microcriminalità, di malessere, lo studente che si perde quanto costa alla società? I ragazzi vanno tenuti in aula il più a lungo possibile, le scuole dovrebbero essere posti aperti dove investire nel benessere della persona.
Vita: Come ha selezionato gli episodi?
Alberico: Sono storie vissute. Le ho scelte anche in base alla loro rappresentatività. Per esempio l’alunna che si depila le sopracciglia ostentatamente durante la lezione ha un nome e un cognome, ma è anche il prototipo della “buzzicona” come dicono a Roma.
Vita: Cosa arriva a questi studenti così distratti?
Alberico: Passano alcune conoscenze, che io non sottovaluto per niente. Ma poi c’è un discorso di competenze, ovvero come usi queste nozioni. Non mi piace però un atteggiamento semplicemente indignato. Nutriti di cattiva televisione, di un impressionante vuoto culturale ed emotivo, come potrebbero i ragazzi quasi di colpo essere recettori sensibili?
Vita: Succede anche nel film «La classe».
Alberico: L’ho visto, ma non mi è piaciuto. Lascia senza conclusioni né prospettive. È un po’ troppo pessimista. Io voglio sempre avere una speranza, anche se è chiaro che occorre sempre tener conto della classe reale, non di quella ideale.
Vita: Cioè?
Alberico: È sulla realtà che vai a ridisegnare la tua funzione. Il programma c’è, ma i contenuti devono essere flessibili. Lavori sulle modalità di trasmissione, facendo la programmazione, cioè un progetto di lavoro con interventi mirati: compresenze, uscite didattiche, usando linguaggi moderni come il cinema.
Vita: Non si insegna senza empatia.
Alberico: Ho avuto la fortuna di fare un mestiere che mi piace, portando avanti la mia idea di scuola pubblica, inclusiva, che accoglie, alleva, si fa carico in maniera seria con grandi crisi e frustrazioni ma si fa carico della formazione dello studente, che è una persona.
Vita: Rivendica la dignità della scuola.
Alberico: Quando ho sentito il ministro Brunetta affermare che i ragazzi si vergognano d’essere figli di dipendenti statali o di insegnanti…, mia figlia non si è mai vergognata. È orgogliosissima. Stiamo scherzando? Di quale immaginario si fa interprete il ministro? Non è così, ma passa la voce di Brunetta, non la mia.
Vita: Quanto il libro è una “lettera della professoressa”?
Alberico: Tutto. Non volevo fare un trattato sulla scuola, le riforme o l’autonomia. E neppure fare una serie di caricature. Per scriverlo ho aspettato di esserne uscita, per avere quel minimo di distanza. Ho voluto raccontare la mia esperienza, da cui ho dedotto alcune idee. Certo la scuola è l’unica istituzione che regge, ma fino a quando? È miope non rendersi conto che è un enorme serbatoio di possibilità positive.
Vita: Esiste ancora il ruolo anche simbolico della professoressa?
Alberico: So che questo ruolo di prof con p maiuscola, l’ho avuto. Credo occorra anche un po’ di carisma. Se riesce a comunicare, un’insegnante passa anche la sua visione del mondo. Che non è accolta sic et simpliciter, ma se ci sono passione e convinzione, il messaggio non è surgelato. Quando dico «accoglienza» non penso a un’ipotesi da libro Cuore. Non a caso racconto episodi anche di grandissima frustrazione. Però non puoi buttare la spugna e dire «il mondo è così». Credo sia molto importante avere dei valori e soprattutto testimoniarli vivendo. È banale, lo so, però è così.
Vita: È cambiata la prof negli anni?
Alberico: Si è passati dalle vestali della classe media – la prof degli anni 60, con il filo di perle, il golf di cachemire e il marito professionista – alle insegnanti degli anni 70 e 80: il femminismo, la sindacalizzazione. Un’altra coscienza di sé. Le donne sono molto coraggiose, concrete, più capaci di riorganizzarsi e interrogarsi di quanto ci si immagini. Se la professionalità dei docenti si è alzata, è stato per merito di associazioni gestite da donne.
Vita: Un femminile sempre e comunque accogliente?
Alberico: Ho sempre cercato di combinare un’accoglienza di tipo materno, abbastanza incondizionata, a una di tipo paterno, condizionata al rispetto delle regole. Il problema è sempre modulare queste due componenti. Alcune volte premi l’acceleratore su una, ma sempre mandando un messaggio: «Ci possiamo sagomare in una relazione che può avere contorni morbidi, ma dentro un rapporto dove ci siano delle regole». Che sono fatte anche per essere infrante. Proprio per poterle riprendere.
Vita: Le prof sono la maggioranza.
Alberico: È vero. Penso che in un consiglio di classe misto si lavori meglio. Ciò detto, maschile e femminile sono componenti presenti in tutti noi. E come sempre le diversità arricchiscono. Per questo ho inteso tutelare sempre la sensibilità. C’è una sacralità nell’emozione più intima che va comunque protetta: di fronte alla grossolanità, non regge.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.